…la mia mano sovrastava la testa, mentre prendeva la forma di una conchiglia per creare maggiore attrito e, appena nell’acqua, tutto il meccanismo strutturale e articolatorio del braccio compiva una s, cercando di spostare più acqua possibile per dare uno slancio maggiore.
L’acqua veniva sconfitta e si ritraeva in un mulinello nei punti precisi in cui la simmetria corporea la picchiava, prima da un lato, e poi da un altro, irregolarmente.
L’onda artificiale prodotta confliggeva con le onde naturali del mare, ma agevolava il flusso dell’acqua verso le gambe.
Le gambe. Il loro movimento era quasi inutile.
Esso si accostava alla funzione dei rompicapi Darwiniani, come la colorazione accesa di alcune farfalle e il sapore velenoso di alcuni anfibi che muoiono ancor prima di permettere al predatore di avvisare i propri geni, e deviare la famelica pulsione verso altre prede.
Le gambe si riducevano a veicolare la posizione con nerbo, mentre destabilizzavano e uccidevano la speranza dei concorrenti.
Esse frantumavano il silenzio e deritmavano la musica tra me e l’acqua.
Mi stavo mettendo alla prova. Dopo tanto. Troppo.
Il mio avversario aveva un bel vantaggio quando indisse la sfida.
Accettare era un paradosso: come guardare l’eclissi con un binocolo fatto dall’arrangiamento delle mani.
Tuttavia il controllo, le pressioni, la prestazione erano sempre stati i batteri insiti nella mia alimentazione malsana: e anche il più grande predatore, se si ciba incessantemente di carcasse imputridite, assimila inevitabilmente  i suoi vermi.
Il risultato fu una malattia che attaccò la coscienza, rendendola così elargiva verso qualunque tipo di sfida. E pian piano mi fece scordare di chi Ero, alimentandomi, piuttosto, le preoccupazioni per Quello che Non Ero o non sarei diventato.
Senza scampo, allora, congestionai le emozioni e vomitai un patto di alleanza con le aspettative.
Ma solo ora capisco che la spinta necessaria per oltrepassare i miei limiti arrivò dalla paura. La paura di deludere me stesso fece aumentare il ritmo delle bracciate e imbastì il motore di una nuova energia, che rese l’aria nei polmoni di ogni inspirazione uno schiaffo ai bronchi, che si dilatavano, dilaniandosi.

Era una giornata bellissima.
La caletta aveva le sembianze di un paradiso.
Rimaneva incastonata nella rupe scoscesa da cui eravamo arrivati, inadatti.
Si presentava calma e immobile come in posa per farsi immortalare.
Sulla sinistra la terra era abitata da una fitta vegetazione di alberi che si allungavano verso l’alto in stile gotico, filtrando la vista del mare tramite le foglie.
Mentre la parte destra si presentava rocciosa. Lunghe costruzioni moreniche, appuntite, estinguevano le piante insieme al desiderio di ripararsi dal sole. Sulla punta, però, un albero era sopravvissuto. Lo rinominai Albero della Vita.
Questo prevaricava sul dirupo, affacciandosi senza vertigini e nascondendo il sole in prospettiva.
Ogni tanto si gonfiava, segnalandoci la direzione del vento.
Il mare dentro la baia non aveva colore. Le alghe sottostanti lo scurivano, cangiandolo di rosso al contatto con il tramonto. Sembrava rigurgitasse il sangue delle battaglie tra le due fazioni rupestri che si incontravano proprio al di sotto la linea dell’acqua, quasi sulla superficie lontana.
Le sterpaglie, accumulate dalle alte maree, condivano l’insalata di scogli in bilico, in procinto di suicidarsi.
Il vento non c’era, e il mare assumeva la forma di uno specchio. La percezione ragionata era quella di assistere al tentativo di Van Eyck di ritrarsi nel cielo tramite il mare, mentre la sensazione a primo impatto era quella di sentire Michelangelo che chiedeva l’aumento per aver raggiunto la perfezione.
La forma a U degli scogli, calmava l’arrivo del mare.
Sembrava una sistemazione dei banchi di un’aula delle elementari e la perfezione con cui le onde li accarezzavano, senza scalfirli, faceva pensare a un incantesimo in grado di avvicinare l’orizzonte e renderlo palpabile.
La dolcezza dell’ambiente anestetizzava il caldo e uccideva le fobie…

Non ricordo se uscii dall’acqua per primo. Ricordo solo quello che successe dopo.
L’escursione termica tra l’acqua e gli scogli bollenti deviò, per un attimo, l’attenzione via dai tonfi del mio cuore, che non accennava a voler recuperare il suo equilibrio.
Il percorso per tornare al mio asciugamano sembrò infinito. Ad ogni battito il mio cervello drogava il corpo di adrenalina. Mi sentivo invincibile.
“Ma, di lì a poco tempo, sentii che diventavo pallido, e desiderai che tutti se n’andassero. Mi doleva la testa, e mi sembrava di sentirmi un tintinnio nelle orecchie; ma quelli restavano sempre seduti e parlavano in continuazione. Il tintinnio divenne ancora più distinto. Cercai di chiacchierare per sbarazzarmi di quella sensazione; ma non mi lasciò, e prese un carattere del tutto deciso, tanto che alla fine m’accorsi che il rumore non era dentro le mie orecchie.
Senza dubbio, allora, divenni pallidissimo; ma parlavo ancora più lesto e più forte. Il rumore aumentava sempre – ed io che potevo fare? – Era un rumore sordo, soffocato, frequente, assai simile a quello che farebbe un orologio involto nel cotone. Respirai laboriosamente; gli altri non sentivano ancora. Parlai più lesto; con più veemenza; ma il rumore cresceva, incessante. M’alzai, e disquisii su delle piccolezze, in un diapason elevatissimo e con una violenta gesticolazione; ma il rumore cresceva, sempre. Perché non se ne volevano andare? – Scorsi l’asciugamano qua e là, pesantemente, a gran passi, come esasperato dal non capire. Ma il rumore cresceva regolarmente. Oh, Dio! Che potevo fare? Schiumavo, balzavo, sacramentavo. Notai l’Albero della Vita che aveva cambiato posizione.
Si era spostato verso sinistra insieme a tutta la cruda vegetazione. E non era finita. Mi vedevo di fronte. I miei occhi mi fissavano sbiaditi e contorti, siringati di Panico.
Ma il rumore dominava sempre, e cresceva indefinitamente. Diventava più forte, più forte! Sempre più forte! E quegli altri discorrevano sempre, scherzavano e sorridevano. Ma era mai possibile che non sentissero? Dio onnipotente!- No, no, sentivano! Sospettavano! sapevano! Si facevano un gioco, un divertimento del mio terrore! Lo credetti e lo credo ancora. Ma tutto, tutto era più tollerabile di quella derisione! Non potevo sopportar di più quegli ipocriti sorrisi! Sentii che bisognava gridare o morire! – e ancora, e sempre, lo sentite? – ascoltate! più forte! – più forte! sempre più forte!”
Nessuno si accorse di niente.
Ben presto il Panico divenne Paura, e senza alcun criterio decisi di riempirmi di qualcosa. Afferrai i biscotti e iniziai a masticare senza alcun metodo.
Digrignavo i denti ingoiando pezzi di qualcosa che aveva il sapore del tempo.
I brividi lungo la schiena amplificavano il rumore assordante del silenzio.
Non sapevo spiegare cosa mi stesse succedendo.
Distoglievo lo sguardo. Vedevo la rupe ripida da cui eravamo arrivati e piangevo.
Sapevo che sarei rimasto lì per sempre. Avevo paura di perdere il controllo.
Nessuno si accorgeva di nulla.
Combattevo con le mie domande e venivo ucciso dalle sensazioni inspiegabili, che mi facevano tentennare.
Ma, pian piano, tutto, misteriosamente, come era arrivato, se ne stava andando. Sentivo il mio corpo rilassarsi e chetarsi.
Continuai a parlare per non destare sospetti.
Quando la metà dei miei muscoli fu distesa, la Paura del vuoto si tramutò in Ansia.
L’Ansia che tutto potesse ricominciare.
Di lì a poco sarebbe diventato routine.