Un viaggio nella cultura giovanile israeliana, tra integrazione, compagnie di Jet privati e la programmazione di software.

Provo a resistere alla luce che entra dalla finestra costringendomi a abbandonare il letto, ma so che è una battaglia persa. È mezzogiorno e giusto poche ore prima sono tornato dal The Block di Tel-Aviv, uno dei club underground più rispettati della città, che molti definiscono il Berghain di Israele per la sua estetica scura e minimale e la selezione musicale di livello. Ancora con i suoni della techno israeliana e alcuni ricordi confusi in testa, mi sveglio. Sono in ritardo: ho un party che mi aspetta dall’altra parte della città e le strade sono paralizzate per il gay pride.

 

Ingurgito qualcosa e mi lancio fuori.

 

Risalgo la parata in controcorrente, scansando schizzi di fucili ad acqua, drag queen danzanti sotto piogge di glitter dorati, e le altre migliaia di persone che celebrano l’amore a prescindere dalla forma.

 

Il serpentone umano si snoda a lato della bianca spiaggia di Tel-Aviv, passa per il lungomare e viene fatto confluire in un parco allestito per la festa poco prima di Jaffa, l’antica parte araba della città. Raggiungo la pensilina dell’autobus e lascio che questa sorregga il mio corpo sfinito dai giorni di viaggio per lo stato di Israele e dal matrimonio per cui mi trovo nell’antiporta del Medioriente: sono arrivato dall’Europa con altri ex-compagni di università per assistere all’unione di uno del gruppo con la donna che è ormai sua moglie.

 


 

Arriva il numero 18 e ci salgo a bordo. Pago 6 shekels (1.50 euro) e cerco un posto tra le tante persone con le guance color arcobaleno di ritorno dalla parata. Mentre mi dirigo verso nord, di tanto in tanto il mio telefono vibra perché si collega ad una delle molteplici reti Wi-Fi gratuite sparse per la città e le foto del matrimonio continuano ad arrivare sulla chat di gruppo.

 

Uno dei file multimediali che arriva durante la corsa è un video dello scambio dei voti. I due ragazzi pronti ad unirsi sotto un gazebo chiamato chuppah, circondati dalle rispettive famiglie e dagli amici più cari. Dopo essersi guardati negli occhi per dichiararsi amore eterno, il rabbino ultima la funzione di fronte alla coppia abbracciata sotto il tallid, lo “scialle di preghiera”, fino a che lo sposo sancisce la fine della cerimonia saltando, come vuole la tradizione, con una pseudo mossa di karate su un bicchiere che rompendosi genera un coro di voci che gridano “Mazel Tov” e dà il via alle danze e alle giravolte (sempre 3 o 7, numeri sacri della cultura ebraica).

 

Arrivo a destinazione e scendo. Cammino per strada domandomi come mai in una città all’avanguardia come Tel-Aviv gli edifici siano così malcurati. L’arrivo di fronte al numero 44 mi fa abbandonare le mie riflessioni. Natalie, la ragazza che mi ha invitato alla festa dopo averci ballato durante il matrimonio, mi aspetta. È l’unica persona che conosco: “non ho internet sul tetto, la porta sarà aperta vieni su senza problemi, ti aspetto”, diceva il messaggio. Salgo le scale circospetto fino ad arrivare in cima dove trovo buona musica, bella gente e un banchetto alcoolico. Natalie mi accoglie con un paio di giravolte accompagnate da sguardi maliziosi. Balliamo un po’, rievochiamo il matrimonio e le danze dionisiache della festa, poi mi presenta i suoi amici, dandomi l’opportunità di poter entrare a diretto contatto con la cultura giovanile israeliana da un punto di vista diverso rispetto a quello cui ero stato esposto nei giorni prima.

 

Conosco Idan e Katarina, di Tel-Aviv lui e americo-israeliana lei. La coppia è molto interessata a me. Lei perché se ne andrà in Toscana in una fattoria bio la settimana successiva; lui perché vuole parlare di cultura israeliana ed è molto felice di rispondere alle mie domande. Contro le mie aspettative, una delle tematiche che più frequentemente emerge è proprio quella del conflitto. Mi consiglia di chiedere alle persone apertamente che cosa ne pensano e discuterne liberamente, poi mi segnala un interessante progetto di un giornalista canadese chiamato “The Ask Project” che ambisce a approfondire il rapporto tra palestinesi e israeliani mostrando cosa pensa la gente da un lato e dall’altro del muro che divide le due terre. Abbandoniamo i discorsi seri per prendere uno dei bicchierini pieni di alcool che passa su un vassoio. È arak, il tipico liquore all’anice israeliano, “quando ti ci abitui non puoi farne a meno, specie dopo il caffè”, mi dice Idan con occhi liquorosi.

 

 

Il giorno della festa avrei dovuto essere a Ramallah, a trovare un’amica che vive in Palestina. Non mi ci trovo per problemi logistici. Il giorno dopo, shabath, non sarei riuscito a tornare in tempo per salutare la coppia di sposi. Dal venerdì dopo il tramonto fino al sabato dopo il tramonto le attività, specie a Gerusalemme, si riducono drasticamente. Idan mi dice che è un peccato che non sia riuscito a andare, e a vedere il contrasto tra le due zone e parlare con la gente “di là”.

 

Lascio la coppia, faccio alcuni giri intorno a Natalie che mi ricambia con altre occhiate ammiccanti, e mi dirigo verso le ceste con le birre. Noto che due ragazzi parlano spagnolo con accento latino. Li saluto e scopro che sono uruguagi, ci stappiamo una birra a testa e ci facciamo una chiacchierata. Sebastian, il più loquace dei due, è un fan della scena elettronica europea, ed è appena tornato da Berlino. Gli racconto del club della sera precedente, e mi ricambia rievocando alcune memorie berlinesi. I due sono in gamba, “mi hanno assunto nel team di sales di Waze, lo conosci no? Da un paio di anni se l’è comprato Google”. L’industria tecnologica israeliana è all’avanguardia, almeno la metà dei miei coetanei che ho conosciuto sono impiegati nello sviluppo o programmazione di app e software, nella vendita di questi, oppure hanno lanciato una startup innovativa. Per via del rapido sviluppo del settore tech, che rende Israele lo stato con più startup per capita che ogni altro paese. I giornali parlano spesso di Silicon Valley Mediorientale, e la sensazione che ho avuto è che è realmente così.

 


 

 

Altro piatto pieno di shot che passa tra gli invitati. Altro arak che va giù, seguito da altre piroette della simpatica Natalie. “Vuoi dell’MDMA? Ti presento Toir”, mi dice improvvisamente.

 

Rifiuto ma scendo col gruppo degli interessati in sala e ci mettiamo a chiacchierare sui divani, mentre una bustina di cristalli marroni gira tra il gruppo. Costa 450 shekel (106 euro) al grammo, un’enormità rispetto all’Europa. Ci perdiamo a parlare del mercato della droga israeliano, è così che scopro che la marijuana medica è legale in Israele e che costa sui 100 shekel (23.75 euro) al grammo. La tech-house di dj Khen continua a pompare dal piano di sopra, decidiamo così di tornare su. Altro shot. Altre piroette. Io e Natalie scendiamo nuovamente di sotto ma, quando le cose sembrano evolversi in una direzione interessante, mi pianta d’improvviso per aprire la porta che si è chiusa. Rimango in cucina con Samuel, ebreo newyorchese in patria per qualche giorno, così scambiamo quattro parole.

 

“Che ne pensi, sono meglio le ragazze italiane o le tipe di qua?”

 

Sorrido pensando che tutto il mondo è paese. Sam sostiene scientificamente che le due etnie sono alla pari, ma che poi a letto le italiane sono più brave perché glielo ha detto un suo amico italiano. Sorrido di nuovo e saltiamo a un nuovo argomento.

 

“Che fai?” incalzo io, “ho appena lanciato una compagnia di Jet privati con un concetto disruptive, ovvero vendo i biglietti come se fossero aerei normali ma sono lusso”. Mi racconta un po’ il percorso fatto, come ha trovato gli investitori e che giusto il giorno prima la sua compagnia ha aperto una nuova tratta tra Boston e New York. È entusiasta di sapere come andrà mi dice. Gli auguro buona fortuna e prima di salutarsi tira fuori l’argomento Gaza senza che dicessi niente. “Ci rompono il cazzo e giudicano tutti all’estero, abbiamo per anni cercato soluzioni pacifico-diplomatiche ma questi non si accontentano, e ripartono le intifade. Il problema è che siamo più forti noi. Avremmo dovuto fare come l’America con i Nativi o la Turchia con gli Armeni: sterminarli tutti. In questo modo ci avrebbero sanzionato subito ma poi non se ne sarebbe più parlato”. Natalie rientra nella stanza, così non dico niente, “Buona fortuna con la tua start up Sam”, “A te!”.

 

Io e Natalie ci fumiamo una sigaretta nel patio, quando arriva Al che, dopo essersi reso conto che non parlo l’ebraico, si interessa a me. Al ha un sacco di cose da dire. Ha studiato alla Technology University di Haifa, a nord di Tel-Aviv. Decanta le qualità di Haifa, dicendomi che è un ottimo esempio di integrazione tra arabi e israeliani e che vorrebbe che il paese fosse tutto così, che questa situazione di odio si dissipasse e che i figli dei due popoli che si sono a lungo combattuti tornassero in pace. Haifa è stata una città chiave durante la guerra, perché città portuale. Oggi invece è potente nel settore dell’high-tech e in quello della raffinazione del petrolio che arriva dall’Iraq. Al è un ingegnere biomedico, e ci tiene a raccontarmi del periodo in cui frequentava una ragazza palestinese per due ragioni: per dirmi quanto trova stupida la situazione tra i due popoli, e per farmi aprire gli occhi sulle differenze culturali e le difficoltà dei palestinesi.

 

“Sai, fino a quando non gli hanno costruito un muro sul campo di famiglia non abbiamo avuto grossi problemi. Tuttavia, in seguito ai numerosi e continui attentati a Gerusalemme, è stata presa la decisione di costruire il muro. Dal giorno alla notte, la sua famiglia si è trovata i possedimenti dimezzati perché passava nel mezzo del loro campo”.

 

“E come hanno reagito?”

 

“Hanno messo da parte l’odio (considera che spesso la polizia andava a svegliarli la mattina perché è capitato che alcuni palestinesi abbiano scavalcato dal loro campo a loro insaputa), e hanno costruito una casa sul loro campo dal lato israeliano. Ma sono un caso speciale, e non faccio fatica a capire se avessero reagito in un’altra maniera”.

 

“Non so se dico una stronzata. Però quando ero a Gerusalemme, la prima reazione che ho avuto quando ho visto il muro è stata quella di pensare al muro di Berlino. Mi ha fatto sentire veramente triste”.

 

“Non è come il muro di Berlino, però è una situazione triste. Proprietà e famiglie sono state divise coattamente. D’altra parte però le vittime degli attentati erano troppe davvero”.

 

Omer interrompe la nostra conversazione. Ci sente parlare in inglese e si incuriosisce. Anche lui aggiunge la sua opinione sul conflitto, ma quando gli dico che vivo a Barcellona il discorso si sposta immediatamente sul Sónar festival. Aldilà della sua passione per l’elettronica, mi dice che una delle ragioni per cui vorrebbe andare al festival spagnolo è che, a causa del conflitto e dell’ideologia legata a questo, molti dj boicottano Israele, nonostante negli ultimi anni le cose stiano gradualmente cambiando. Torniamo su in terrazza. Parliamo ancora e alle nostre spalle il sole sprofonda nel mare, cullato dalla musica di dj Khen inzuppata nell’arak.

 

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