In un’Europa sempre più multiculturale che ruolo ha oggi il Cristianesimo?

«Tutto il visibile poggia su un fondo invisibile, ciò che si conosce su un fondo che non si può conoscere, ciò che è tangibile su un fondo intangibile»

 

l’autore di queste parole, Novalis, scrisse nel 1799 un pamphlet dal titolo Cristianità ovvero Europa. Erano gli anni più foschi della Rivoluzione Francese e, nel travagliato Vecchio Continente, Novalis vagheggiava: “Es warenschöne, glänzende Zeiten” (Erano belli, splendidi tempi) riferendosi a un idealizzato Medioevo in cui l’Europa si raccoglieva unita sotto l’egida papale, prima di dividersi a causa della Riforma Protestante. Il testo, accolto malissimo dai romantici di Jena come Schelling e Goethe, divenne il manifesto della Restaurazione con la quale le monarchie dell’Ancien Règime schiacciarono, nell’Ottocento, le aspirazioni rivoluzionarie dei popoli. Nei secoli seguenti l’Europa si è più volte interrogata sulle sue radici culturali e religiose, tanto che nel 2003 il professor Mario Alighiero Manacorda rispose, a duecento anni di distanza, a Novalis, e a coloro che volevano inserire principi cristiani nella Costituzione europea, con un altro testo: Cristianità o Europa? in cui si indagavano storicamente gli esordi del cristianesimo e la sua trasformazione da religione delle coscienze a religione del potere.

 

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Novalis, l’autore di Cristianità ovvero Europa

 

Al di là del dibattito politico in cui era inserito, il libro di Manacorda ebbe come grande merito l’aver trasformato un’affermazione ideologica in una domanda che può aiutarci a riscoprire le nostre radici spirituali e regalarci uno scorcio su quell’identità storica e umana nella cui esperienza si iscrive la civiltà europea. Come e quando l’Europa è divenuta sinonimo di cristianità, e perché poi se ne è emancipata trovando nella laicità e nella scienza la chiave della propria sopravvivenza e della sua affermazione come protagonista nel mondo? Per capirlo dobbiamo tornare indietro e riscoprire cosa spinse gli abitanti del Mediterraneo romano ad abbandonare le potenti divinità precristiane per venerare un povero falegname ebreo morto sulla croce. Nel farlo non possiamo prescindere dal risalire la china del tempo fino al grande movimento religioso e culturale che fu alla base della nascita del cristianesimo e di molte religioni contemporanee, quel VI secolo a.C. che gli storici definiscono “Epoca assiale”, il perno su cui ruota ancora oggi la storia del mondo, e che vide cinque grandi illuminati operare in cinque diverse parti del mondo, di cui Cristo fu, in Occidente, il principale erede.

 

I Cinque Illuminati

«In un arco di tempo che ha il suo fulcro nel secolo VI a.C. emersero in ogni parte abitata del pianeta espressioni culturali che nel loro insieme furono come le vette di una catena nevosa da cui scendono i rivi delle diverse civiltà dello spirito»

 

riassunse liricamente Ernesto Balducci in Storia del pensiero umano commentando la definizione di Karl Jaspers di Epoca Assiale contenuta in Origine e senso della storia. Il periodo che va dall’800 al 200 a.C. è considerato l’asse su cui ruota la storia dell’uomo: in questi sei secoli, che hanno il loro centro nei 120 anni tra il 600 e il 480 a.C., vennero elaborate forme religiose, filosofiche e politiche che ancora oggi influenzano l’umanità e costituiscono il motore culturale di ogni civiltà esistente. Questa epoca si aprì su un mondo ancora guidato, dopo duemila anni, dalle due più antiche civiltà regionali della storia, quella Egizia e quella Mesopotamica, ma quando si chiuse era in mano ad altre totalmente nuove, e aveva sviluppato forme di governo e convivenza mai sperimentate fino ad allora, come la democrazia e la tolleranza religiosa. Non è un caso che i Cinque Illuminati che avrebbero generato le religioni moderne siano nati e cresciuti in queste nuove culture, meno prestigiose ma più dinamiche, e che abbiano risposto, in un periodo di grandi sofferenze, al desiderio, divenuto comune a tutti gli uomini, di trovare un più intimo rapporto col divino.

 

L’uomo ha da sempre venerato religiosamente le realtà che detenevano un potere su di lui. Al principio, quando viveva ancora in piccoli gruppi di Cacciatori-Raccoglitori, aveva divinizzato quella Natura che lo dominava. Poi, con la nascita dell’agricoltura e il trionfo della civiltà sulla Natura, l’uomo era giunto a divinizzare la collettività umana elaborando pantheon di divinità (come quello greco o romano) i cui elementi erano una trasfigurazione delle città-stato e dei regni cui era soggiogato. In entrambi questi stadi di civiltà, l’umanità si era rapportata al divino principalmente in modo istituzionale e collettivo, con un sistema di scambio in cui la comunità capeggiata dal Re, dal Sacerdote o da una figura ibrida di entrambi effettuava sacrifici per ottenere da dèi antropomorfi qualcosa in cambio.

 

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La mappa dei Cinque Illuminati

 

I grandi sconvolgimenti del primo millennio avanti Cristo lasciarono l’umanità bisognosa di un rapporto più intimo e diretto con quella realtà ultima che stava oltre la materia del mondo, e a questo bisogno risposero, con le loro esperienze personali e il loro pensiero, i Cinque Illuminati.

Il più antico di essi fu Zarathustra, che visse e operò forse all’inizio del VI secolo (o prima ancora) in una regione di frontiera dove l’Ecumene civilizzato guerreggiava con la steppa dei nomadi eurasiatici: il bacino dello Oxus-Jaxarte. Un mondo bipolare e conflittuale che influenzò la filosofia di Zarathustra, portandolo a concepire un universo dominato da due divinità: Ahura Mazda, signore della luce e della vita, in eterna lotta col suo nemico Angra Mainyu, dio dell’oscurità e della morte, destinato alla sconfitta alla fine dei tempi. Seppure lo zoroastrismo oggi sia limitato ai Parsi, una minoranza etnica del Gujarat, i concetti di immortalità dell’anima, di Giudizio Universale e di Spirito Santo (Spenta Mainyu), ispirati da questa religione al giudaismo, sono giunti fino a Cristiani e Musulmani.

 

Il secondo in ordine di tempo fu ebreo e la sua opera influenza ancora oggi circa metà dell’umanità vivente, ma, per ironia della sorte, è rimasto anonimo. Gli storici lo conoscono come “Deutero-Isaia”perché i suoi scritti furono accorpati a quelli del famoso profeta vissuto circa due secoli prima. Sfuggito alla cattività babilonese col resto del suo popolo grazie a Ciro II di Persia, egli fu il primo, vero, monoteista della Storia (dopo il faraone Ekhnaton che regnò ottocento anni prima). Fino a lui, il popolo ebraico aveva considerato Yahweh come unica divinità da venerare, non come unica divinità in assoluto, dunque un dio tribale in lotta coi numerosi dèi del variegato mondo mediorientale. Dal “Deutero-Isaia” in poi, gli Ebrei credettero che nell’universo non vi fosse altro Dio che Yahweh, e che il resto degli dèi non esistesse. Come vero monoteista il “Deutero-Isaia” si trovò però di fronte al dilemma del male, inspiegabile in un universo dominato da un’unica divinità creatrice. Egli risolse questo dilemma considerando il dolore e la sofferenza come il fuoco che tempra e purifica l’acciaio, uno strumento di crescita spirituale.

 

Il terzo fu Buddha, il più sublime di tutti loro, che visse forse dal 567 al 487 a.C. in Nepal e Bihar, nato da una famiglia nobile di Kapilavastu, gli Sakya, poi divenuto eremita e infine fondatore della religione buddhista, oggi praticata da circa mezzo miliardo di persone nel mondo.

Il quarto, Confucio, nacque e visse nello stesso periodo di Buddha, nello stato di Lu in Cina, un paese stremato e straziato da guerre continue, al quale il saggio diede una nuova coscienza e un fondamento sui quali, tre secoli dopo, Chi’n Shi Hwang-ti creò l’Impero Cinese.

Il quinto, Pitagora, nacque a Samo ma lavorò nell’Italia meridionale, ed ebbe in comune con Buddha suo contemporaneo la concezione della vita come una serie di reincarnazioni premiate o punite dal comportamento umano.

Sebbene uno indipendente dall’altro, i Cinque ebbero alcune caratteristiche comuni.

 

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Una statua gigante del Buddha

 

Stabilirono un rapporto diretto col divino. Per noi sembra scontato, ma fino al VI secolo a.C.il rapporto dell’uomo col divino era impensabile al di fuori della realtà famigliare, cittadina e collettiva. Ognuno dei Cinque ruppe con questo retaggio di subordinazione alla comunità e si aprì un varco personale verso la realtà ultima che stava dietro il mondo, respingendo in un colpo sia il culto primitivo della Natura che quello urbano dell’Uomo, per toccare personalmente la dimensione dello Spirito. Due di loro, il “Deutero-Isaia” e Zarathustra, concepirono questa realtà come un essere dalla volontà antropomorfa, Confucio la identificò con lo Spirito della Legge (T’ien, il Cielo), Buddha invece come uno stato di annullamento chiamato nirvana.

 

Furono rivoluzionari. Tutti e cinque gli Illuminati, avendo rotto con la religione dell’epoca, si scontrarono anche con lo status quo e vollero cambiare la realtà sociale in cui erano nati, ma questa carica rivoluzionaria variò tantissimo per intensità tra i cinque. Buddha fu il più estremo: egli cercò non di mutare la società che conosceva, bensì la natura stessa dell’Uomo, distruggendone l’avidità che era la causa del dolore. La sofferenza, per Buddha (e per Pitagora), era l’esperienza comune a tutti gli uomini, e annullare sé stessi l’unica via per eliminarla. Il “Deutero-Isaia” e Zarathustra sovvertirono e mutarono per sempre la forma religiosa dei loro popoli, Confucio, desiderando riscoprire le tradizioni perdute della Cina, in realtà ne elaborò di nuove che ancora oggi sono il fondamento della civiltà cinese. Pitagora istituì un regime talmente estremista e tirannico nelle colonie greche da causare una reazione violenta che distrusse la sua comunità.

 

Furono guide. Ognuno dei Cinque tentò di condurre l’umanità lungo le vie da loro scoperte. Buddha, Pitagora, Confucio e Zarathustra ebbero discepoli, e il “Deutero-Isaia” iscrisse il suo pensiero nei testi sacri giudaici e dunque nella Bibbia, rendendo così tutto il popolo ebraico suo seguace. Fatta eccezione per i Gatha di Zarathustra e, appunto, per i testi del “Deutero-Isaia” non ci sono giunti scritti originali di Buddha, Pitagora e Confucio ma solo le registrazioni dei loro discepoli. Creando le proprie scuole, i Cinque Illuminati accettarono anche l’istituzionalizzazione del loro pensiero, permettendone la sopravvivenza nel tempo, ma, come avverrà per il Cristianesimo in futuro, anche la frammentazione in correnti dalle diverse concezioni filosofiche.

 

Queste tre caratteristiche dei Cinque divennero i tratti comuni di molti fondatori di religioni loro eredi nelle epoche seguenti, tra cui i più famosi furono Gesù Cristo e Maometto.

 

L’eredità dei Cinque Illuminati e la nascita del Cristianesimo

«Quello che è bene per tutti è bene anche per me, quello che ritengo sia buono per me è buono anche per tutti gli altri»

 

la più antica formulazione della Regola Aurea del Cristianesimo proviene dai Gatha, 43.1, di Zarathustra. La religione cristiana raccolse, come molte altre, una ricca eredità ideale dai Cinque Illuminati: la fiducia nella capacità umana di superare avidità ed egoismo; il valore costruttivo dell’affrontare il dolore; la fede in un solo Dio; l’appello a combattere per il Bene contro il Male; la concezione di morte e rinascita; l’idea di un Giudizio Finale; l’immortalità dell’anima e il suo legame personale con il divino. Queste idee, una volta espresse, mutarono irreversibilmente l’universo spirituale umano, e di generazione in generazione, dopo venticinque secoli, sono ancora presenti in diverse culture del mondo, oltre a quella europea.

 

Ma esse non cambiarono il destino di sofferenza che affliggeva gli uomini da quando avevano raggiunto l’autocoscienza. Alla morte dell’ultimo degli Illuminati, attorno al 480 a.C., si aprì per l’Ecumene un “periodo di torbidi” che avrebbe scatenato, l’una contro l’altra, tutte le civiltà mondiali in conflitti furibondi per quasi mezzo millennio. Le Guerre Persiane, le conquiste di Alessandro Magno, le guerre tra i suoi successori, tra Roma e Cartagine, tra Roma e l’Oriente e infine le guerre civili e il crollo della Repubblica, trasformarono il Mediterraneo e il Levante in un campo di battaglia sconfinato, non diverso dall’India e dalla Cina contemporanee. Eppure da questo flagello secolare l’Ecumene risorse finalmente unito, e all’epoca di Gesù di Nazareth l’Europa e l’Asia, sino alle rispettive estremità oceaniche, si erano saldate in quattro grandi imperi regionali, relativamente stabili e in comunicazione tra loro: Roma, la Parthia (poi soppiantata dalla Persia Sasanide), i Kushana indiani e la Cina della Dinastia Han.

 

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La mappa dei grandi imperi regionali

 

Gesù era il figlio illegittimo di una ragazza madre povera, nato in una turbolenta e sperduta periferia dell’Impero Romano da un popolo guardato con sospetto, e dopo essersi inimicato sia l’estabilishment sacerdotale ebraico che l’opposizione ribelle armata, fu crocifisso a soli trentatré anni. Nessuno avrebbe scommesso che, trecento anni dopo la sua morte, il mondo Mediterraneo lo avrebbe venerato come una divinità. Questo ruolo sarebbe stato pronosticabile per il suo quasi contemporaneo Augusto, abile politico, nipote di Giulio Cesare, princeps di Roma e pacificatore dell’Impero, come aveva profetizzato Virgilio nell’Eneide. Invece i templi dedicati al primo signore di Roma crollarono in rovina pochi secoli dopo, mentre l’alba dell’era cristiana sorgeva prepotente sul mondo.

 

Gesù, prima di trasfigurare nella religione come Cristo, fu un profeta ebreo di tradizione siriaca, discepolo, poi emancipatosi, di Giovanni Battista, i cui seguaci rappresentarono i primi interlocutori di San Paolo durante gli anni di formazione delle comunità cristiane. L’indubbio valore del suo insegnamento ne mostra gli aspetti rivoluzionari degni dei Cinque Illuminati: visse in un’epoca dominata da un’aristocrazia onnipotente, eppure scacciò i ricchi e si rivolse ai poveri; calcò la strada solitaria della non-violenza, mentre il suo popolo imbracciava le armi contro i Romani; in una regione controllata da una casta sacerdotale teocratica, propose un rapporto personale col divino disprezzando i sacrifici e la mercificazione della religione.

 

Questa sua carica sovversiva lo condusse, passo dopo passo, dalla celebrità all’emarginazione e infine al martirio e alla crocifissione, abbandonato da amici e discepoli alla morte più ingloriosa che il mondo antico potesse riservare a un uomo. Eppure la breve vita di Gesù divenne la base della più diffusa religione del mondo, e questo avvenne non solo per l’altissimo valore del suo insegnamento, tanto più rilevante in quanto Gesù non apparteneva alla ristretta èlite culturale grecofona dell’Impero, ma anche per una serie di ragioni storiche e psicologiche che congiurarono perché il Cristianesimo vincesse su tutte le altre religioni in lizza per la conquista del Mediterraneo.

 

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La crocifissione

 

Alla fine di questa battaglia, la fede cristiana le aveva sconfitte tutte, ma solo nella misura in cui era riuscita ad assorbirle, mutando essa stessa natura e forma. La capacità mimetica e al contempo filosofica del Cristianesimo venne a lui dalla cultura greca di cui era permeato il mondo romano, che si era dimostrata razionalmente ricca tanto quanto, nella sfera religiosa, emotivamente povera. Il cristianesimo diede alla civiltà ellenica una incrollabile fede devozionale, la civiltà greca diede al cristianesimo gli strumenti filosofici e linguistici adatti a elaborare la propria teologia.

 

Come siamo divenuti Cristiani

«La sofferenza è il prezzo del sapere»

 

è una delle massime espresse da Eschilo, padre della tragedia greca, in un dramma rappresentato ad Atene nel 458 a.C., al principio di quell’“epoca dei torbidi” che avrebbe diffuso l’eredità spirituale dei Cinque Illuminati, saldato assieme gli stati regionali dell’Ecumene e preparato il terreno alla vittoria finale del Cristianesimo.

 

Il Mediterraneo, in particolare dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., era stato il teatro della diaspora ebraica, che si distribuì in tutta la regione portando con sé, come semi, le comunità giudaico-cristiane dei primordi, poi aperte ai romani dall’opera di San Paolo. Diffusosi nell’Impero e divenuto da setta di una religione etnica un credo universale, il Cristianesimo si aprì alle influenze delle altre civiltà e ingaggiò una lotta con le loro religioni, prima per la sopravvivenza, poi per la supremazia.

 

L’umanità dei primi secoli della nostra era aveva ereditato dalla fase precivile della storia quattro archetipi, quattro figure che incarnavano le più antiche verità con cui l’uomo, nella sua esperienza, si era confrontato: la Madre, il Padre, il Figlio e il Salvatore. Tutte le religioni mediterranee che si combatterono per affermarsi come unica fede del mondo orientale e occidentale le avevano fatte proprie, ma ognuna in modo differente, e questa diversità determinò alla fine la vittoria dell’una sull’altra.

 

La Madre: Il primo degli archetipi era anche il più antico, infatti che i figli nascessero dalle madri fu evidente all’uomo fin dal principio, ma che la gravidanza fosse l’esito di un rapporto sessuale con il padre fu chiaro, forse, solo più tardi. Per questo motivo il concetto di maternità, che appartiene alle più antiche rappresentazioni visive dell’umanità, non è incompatibile con la Verginità. Come figura proteiforme, la Madre può generare una prole umana e, contemporaneamente, essere la Terra, creatrice della vita, benevola oppure crudele (come Ecate in Grecia o Kali in India), ma ci si aspetta comunque che nutri i figli e li ami.

 

Nella lotta dei primi secoli della nostra era per il ruolo di Madre del mondo Mediterraneo si presentarono cinque candidate: Iside, egizia; Cibele, frigia (Asia Minore); Artemide, efesina (Asia Minore); Demetra, eleusina (Grecia); e Maria, una ragazza madre vissuta in Galilea. Cibele, che aveva mutilato Atti suo consorte, Demetra, con la sua carica orgiastica e misterica, e Artemide, indomita e selvaggia, non potevano vincere in questa lotta perché rappresentavano figure meno rassicuranti della maternità. Lo scontro avvenne soprattutto tra Iside e Maria, che seppure umana, nel cristianesimo assunse un ruolo, quello di Theotòkos, Madre di Dio, praticamente divino. Iside però aveva un consorte morto e mummificato e il figlio di lei, Horus, non poteva competere con l’empatia umana suscitata da Gesù. Quindi Maria, la cui esperienza di vita era stata così vicina a quella delle masse povere del mondo Mediterraneo, prese il sopravvento, assumendo molte delle caratteristiche dell’Iside egizia come portatrice di vita e rinascita.

 

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Iside e Maria a confronto

 

Il Padre: Il padre è spesso associato al Cielo e al Tempo metereologico, incostante ma eternamente presente, temibile nell’ira e amabile nel perdono. Yahweh, divinità ebraica assurta, col “Deutero-Isaia”, a unica divinità universale, aveva esordito proprio come Dio del Tempo, e nella lotta per divenire il Padre del Mediterraneo si scontrò con un’altra molto simile: Giove Dolicheno. Erede dello Zeus olimpico, la divinità della città di Dulukh in Asia Minore era il più promettente candidato al ruolo di Padre nel II secolo. Avendo una sposa alla pari con lui e trovandosi in un punto logisticamente importante per le forze armate, Giove Dolicheno si espanse, grazie ai soldati e alle loro mogli, fino al Reno e al Danubio. Ma la crisi del mondo romano del III secolo, che investì soprattutto l’esercito, portò al tramonto di questa divinità lasciando la vittoria finale a Yahweh, trasfigurato nel cristianesimo paolino in padre benevolo che sacrifica il figlio per salvare l’umanità.

 

Il Figlio e il Salvatore: Gli archetipi non si escludono a vicenda, e nel Mediterraneo, dove dominava una civiltà agricola, il Figlio, il Seme che muore e rinasce, il Salvatore e il Dio Incarnato divennero una sola figura. Tre erano i Salvatori che si presentarono come divinità rivali: l’egizio Horus, il più antico, che aveva sconfitto il fratricida Seth; Mitra, divinità iranica poi trasportata in Asia Minore, dove era divenuta signore del Sole, delle Stelle e del destino dell’Uomo; e il profeta martirizzato Gesù. Horus era troppo legato alla tradizione egizia per potersi affermare universalmente, e Mitra era in svantaggio su Gesù per almeno due aspetti fondamentali: non era una vittima ma un assassino ed era senza moglie e senza madre.

 

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Mitra

 

L’umanità aveva bisogno di un Salvatore che partecipasse al massimo della comune esperienza del dolore e della sopraffazione e scelse un falegname manifestamente inerme per questo ruolo. Divenendo Salvatore e quindi Dio Incarnato, Gesù e i suoi discepoli cristiani ingaggiarono un duello mortale con l’Impero Romano, che era dominato da un altro Dio Incarnato: l’Imperatore. Il rifiuto di adorare i Cesari da parte dei Cristiani fu la scintilla che li condusse alle persecuzioni e al martirio, finché l’Impero, scontratosi con una fede inamovibile, capitolò e si alleò con essi. Ma la lotta per la supremazia tra autorità imperiale e sacerdozio non si estinse per un millennio, e ancora oggi ne riverbera l’eco nel confronto tra stato e chiesa.

 

Alla fine del III secolo il Cristianesimo aveva ormai raggiunto una vasta parte della popolazione romana, assorbendone e trasformandone le culture, e dopo l’ultima persecuzione l’Impero, in crisi, decise di legittimarlo fondendosi con esso per sfruttarne la forza dirompente. L’istituzionalizzazione di una religione delle coscienze, però, la trasformò in religione del potere, e queste due identità, quella rivoluzionaria, pauperistica e individuale e quella statale, economica e autoritaria, iniziarono a confliggere dividendo i fedeli in una lotta che si è perpetuata per secoli, arrivando fino a oggi.

 

Cristianità o Europa?

«Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande»

 

fu l’accorato appello di Simmaco nella Relatio de Ara Victoriae, in difesa dei culti tradizionali di Roma, quando alla fine del IV secolo d.C. il cristianesimo stava distruggendo i simboli del passato pagano. Fu l’inascoltato canto del cigno di una civiltà multiculturale ormai anacronistica in un Mediterraneo dove un nuovo rapporto emotivo col divino aveva sostituito il sincretismo del passato. È ironico che il Cristianesimo, militante e monoteista, sia stato infine legittimato da un editto, quello di Milano del 313 d.C., che proponeva ideali di tolleranza religiosa e convivenza tra i popoli: essendo una religione devozionale ed esclusivista, il Cristianesimo non poteva accettare l’esistenza di altre fedi senza assorbirle o estinguerle, e fondendosi con le identità culturali delle diverse popolazioni, le oppose una contro l’altra dividendo l’Ecumene per secoli. Così, fin dal principio, la nuova religione si scisse tra gnostici e cristiani, niceni e ariani, ortodossi e monofisiti, cattolici e ortodossi, cattolici e protestanti, mutando pelle e ampiezza in una millenaria matrioska eternamente rinnovata.

 

Il Cristianesimo diede all’Occidente un rapporto emotivamente soddisfacente con la divinità, ma il prezzo che chiese in cambio fu alto: la divisione mai più sanata del Mediterraneo, preda dell’intolleranza reciproca tra i popoli. Fu l’esito naturale della sua istituzionalizzazione politica, un’evoluzione che, nella Storia, si è ripresentata ogni volta che il potere ha acquisito mezzi ideologici fondati sulla fede cieca e fanatica del popolo (come hanno dimostrato Nazismo e Comunismo nel secolo scorso).

 

L’Europa sperimentò la ferocia dell’intolleranza cristiana quando nel suo seno la scissione tra Cattolici e Protestanti del XVI sec. condusse a guerre sanguinose in Francia, Inghilterra e Germania. Conflitti dove gli interessi politici si travestirono da princìpi religiosi, mirando non alla sottomissione ma all’estinzione delle comunità nemiche. Da questa immane catastrofe umana (“la maggiore mai abbattutasi” sull’Europa prima del Novecento per Nicolao Merker), che solo tra il 1618 e il 1648 lasciò sul campo 12 milioni di morti, e che ha terribili somiglianze con l’odierna situazione mediorientale, il Cristianesimo istituzionale uscì delegittimato, e l’Occidente dovette, per sopravvivere, rinnegare il fanatismo e l’intolleranza religiosa.

 

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La Guerra dei 30 anni

 

Tra il 1600 e il 1700, la cultura europea si emancipò dal suo passato, sia classico che cristiano, volgendosi alla scienza e al pensiero laico, critico e indipendente, e ciò le permise di rinascere e infine di affermarsi sul globo.

 

Questa nostra eredità laica e scientifica, che dobbiamo rispettare e ricordare perché fu la chiave della nostra sopravvivenza, non può comunque farci dimenticare chel’Europa fu la Cristianità, e la Cristianità l’Europa. La nostra passata identità cristiana però non è un confine su cui giacciono i corpi esanimi delle altre culture, ma uno strumento per scoprire la complessa diversità che abbiamo ereditato dalle numerose civiltà, filosofie e religioni del passato.

Il Cristianesimo non vinse perché era rigido e immutabile: da quando Gesù fu crocifisso a oggi, la sua religione è cresciuta e si è affermata proprio grazie a una straordinaria capacità di trasformazione, divenendo la figlia universale di quelle culture, di quelle civiltà che prima di lei hanno abitato il Mediterraneo.

 

Quando parliamo di radici cristiane d’Europa dobbiamo ricordare le radici ebraiche, greche, romane, siriache, persiane ed egizie del cristianesimo, e che è a questa identità composita che ci stiamo richiamando. Scoprire chi siamo è un percorso a ritroso nel tempo fino a quell’immensa aula costruita dallo spirito dentro ognuno di noi, dove le idee e le filosofie formulate nei secoli si raccolgono attorno all’eredità dei Cinque Illuminati: un legame indissolubile con il resto dell’umanità in questa comune esperienza che è la vita sul pianeta Terra.

 

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