Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli è un romanzo a episodi che si lega alla letteratua americana della strada.

Cosa lega Pier Vittorio Tondelli a Walt Whitman e Jack Kerouac?

 

«Per sempre vivi, sempre in avanti,

maestosi, solenni, tristi, rattratti, delusi, pazzi, turbolenti, deboli, insoddisfatti,

disperati, superbi, amanti, malati, accettati dagli uomini, dagli uomini respinti,

essi vanno, van sempre, e so che vanno, ma non so dove vadano,

se non che vanno verso il meglio – verso qualcosa di grande».

 

Così scrive Walt Whitman nel suo Canto della strada, compreso nella raccolta Foglie d’erba, nel 1855. Circa un secolo dopo, Jack Kerouac pubblica Sulla strada, il romanzo-manifesto della beat generation americana, che racconta le vicende di giovani «maestosi, solenni, tristi, rattratti, delusi, pazzi, turbolenti, deboli, insoddisfatti» in cerca del «meglio», cambiando in modo irreversibile la letteratura made in Usa. Un filo rosso lega i versi ottocenteschi di Whitman e la prosa di Kerouac, forse perché entrambi esprimono – seppur in modo diverso – un aspetto fondamentale dell’identità americana, fin dalle sue origini: la necessità di muoversi. Non per fuggire, ma per cercare una condizione di vita migliore.

 

Pier Vittorio Tondelli 1

La strada rappresenta il senso di libertà della beat generation

 

Negli anni in cui Kerouac scrive Sulla strada, sembra invece che la gran parte della popolazione americana abbia deciso di rinunciare alla ricerca del meglio, accontentandosi di ciò che il boom dei fifties può offrire: un lavoro rispettabile, figli beneducati e una casa piena di elettrodomestici moderni. È una realtà di benessere diffuso, ma agli occhi dei giovani della beat generation appare falsa, perché filtrata dagli schemi della morale convenzionale – e spesso limitante – e della produttività economica elevata ad unico valore positivo. L’unico modo per avere un contatto con la realtà autentica è tornare a muoversi, attraversando confini fisici e mentali per cercare il «meglio» di cui già parlava Whitman, magari verso Ovest – come i pionieri – fino a San Francisco e Big Sur, e poi ancora oltre i confini nazionali. Dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, intitolato The Town and the City e ben accolto dalla critica tradizionale, Kerouac dichiara di voler rinunciare all’ambiente mondano dei salotti letterari con queste parole:


“Devo scegliere tra questa roba e i camion delle strade. Credo che sceglierò i camion, dove non dovrò spiegare niente e dove non c’è niente di spiegato, ma ci sono soltanto cose reali.”

 

Tutt’intorno la gente osserva i giovani beat da case con vialetti e giardini ben curati, disprezzando il loro stile di vita. I protagonisti dei romanzi di Kerouac infatti si gettano nei grandi spazi d’America, percorrendoli alla guida di vecchie auto o facendo l’autostop, in un’esaltazione dovuta alla necessità opprimente di affermare sé stessi, di non lasciarsi schiacciare dalle convenzioni e dall’abitudine. Il tempo e lo spazio delle loro esperienze non può essere misurato secondo i criteri comuni, ma si dilata e si restringe come in una jam session di musica jazz, grazie anche all’uso di alcol e droghe che contribuiscono a liberarsi dai vincoli di uno sguardo univoco sulla realtà, nel tentativo di raggiungere un’e-stasi fisica e mentale.

 

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Jack Kerouac, Allen Ginsberg e William S. Burroughs

 

Ma le vicende dei beat non superano solo i confini delle terre e della percezione: c’è un terzo spazio che vogliono percorrere in modo nuovo, senza farsi condizionare da chi li ha preceduti. È quello della pagina bianca, su cui la scrittura di Kerouac e Ginsberg dilaga libera, come se le parole, i segni di interpunzione e la sintassi stravolta fossero un corrispettivo della ricerca instancabile portata avanti sulle strade:

 

“per ricreare sintassi e misura della povera prosa umana

e star di fronte a voi senza parola e intelligenti e

tremanti di vergogna, respinti ma che l’anima tutta

confessano per conformarsi al ritmo che il

pensiero ha nella sua nuda testa senza posa”

(Allen Ginsberg, Urlo)

 

È stato giustamente osservato che la prosa di Kerouac sembra assecondare le possibilità del respiro, richiamando da vicino l’improvvisazione musicale, in particolare quella dei musicisti jazz neri di cui sono descritte le esibizioni in Sulla strada:

 

“«Abbiamo chiuso, dopo questo».
Ma il capo, il ragazzo snello, aggrottò la fronte. «Suoniamo lo stesso».
Poteva venire fuori qualcosa comunque. Si può sempre andare oltre, oltre – non si finisce mai. Cercarono nuove frasi dopo le esplorazioni di Shearing; ce la misero tutta. Si torcevano e si dimenavano e suonavano. Di tanto in tanto un limpido grido armonico accennava a un motivo nuovo che un giorno sarebbe stato l’unico al mondo e avrebbe innalzato alla gioia l’anima degli uomini. Lo trovavano, lo perdevano, lo cercavano disperatamente, lo ritrovavano, ridevano, gemevano, con Dean che sudava al tavolo e li incitava, avanti, forza, avanti. Alle nove del mattino tutti – musicisti, ragazze in pantaloni, baristi, e l’unico piccolo magro, infelice suonatore di trombone – uscirono barcollando dal locale dentro il gran frastuono della Chicago di giorno per andare a dormire fino alla prossima sfrenata notte di bop.”

 

La vicenda culturale della beat generation ha quindi il suo culmine negli anni cinquanta e primi sessanta, durante cui si impone lo stile di vita della cosiddetta società neocapitalista, a cui i beat reagiscono con i loro viaggi e la loro letteratura, specchio di un’irrequietezza dell’animo che non può essere calmata dai beni materiali offerti dal boom economico.

Ma Pier Vittorio Tondelli cosa c’entra con tutto questo?

 

***

Eppure ancora qualche anno dopo, all’inizio del 1980, in Italia un giovane poteva prendere in mano un romanzo Feltrinelli appena uscito (e che nei mesi successivi sarà addirittura sequestrato per oltraggio alla pubblica morale) e leggere:

 

“Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa, come stare sulle piazze a spiare la gente che passeggia e fa salotto e guarda in aria, tante fantasie una sopra e sotto all’altra, però non s’affatica nulla. Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti.”

 

Il libro è Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli: è un romanzo a episodi, cioè costituito da sei racconti legati fra loro soprattutto dai luoghi in cui sono ambientati. Lessico, punteggiatura e sintassi non seguono criteri di ordine e chiarezza, né danno vita a periodi armoniosi, ma sembrano assecondare i pensieri del protagonista nelle sue mille diramazioni. Oltretutto, al movimento mentale e linguistico è associato quello fisico di un’auto che viaggia verso la «prateria», anche se di solito in Italia diciamo «pianura» e il termine «prateria» ci ricorda – guarda caso –  gli spazi sterminati di un lontano West.

 

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Gli spazi sterminati descritti in Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli

 

Nel romanzo di Pier Vittorio Tondelli c’è tanto degli anni Settanta italiani, come le radio libere, le occupazioni universitarie, i collettivi studenteschi o femministi: eppure, se ci fosse solo questo, oggi avrebbe perso la sua modernità. Leggendolo invece si viene colpiti dalla sua forza d’urto, perché, se ci si immerge nell’energia sorprendente dei neologismi e delle espressioni del parlato, si può scorgere sul fondo di Altri libertini un personaggio che attraversa luoghi e tempi: il giovane che cerca disperatamente di conoscere se stesso e di entrare in contatto diretto con la realtà, sia un beat di Frisco o uno studente del Dams di Bologna.

 

Gli spazi della pianura padana di Pier Vittorio Tondelli sembrano suggerire la possibilità di scuotersi dalla paralisi della provincia mettendosi in viaggio. Non importa se l’Emilia non è vasta come gli Stati Uniti, c’è sempre una possibilità per andare oltre, magari sognando proprio l’America:

 

“Correggio sta a cinque minuti dall’inizio dell’autobrennero di Carpi, Modena che è l’autobahn più meravigliosa che c’è perché se ti metti lissù e hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva, entri a Carpi ed esci lassù. Io ci sono affezionato a questo rullo di asfalto perché quando vedo le luci del casello d’ingresso, luci proprio da gran teatro, colorate e montate sul proscenio di ferri luccicanti, con tutte le cabine ordinate e pulite che ti fan sentir bene anche solo a spiarle dalla provinciale, insomma quando le guardo mi succede una gran bella cosa, cioè non mi sento prigioniero di casa mia italiana, che odio, sì odio alla follia tanto che quando avrò tempo e soldi me ne andrò in America, da tutt’altra parte s’intende, però è sempre andar via.”

 

C’è un altro aspetto che conferisce complessità ai personaggi di Pier Vittorio Tondelli e che li fa emergere con realismo dalle pagine del romanzo: il desiderio opprimente di ricevere affetto, di veder riconosciuta da qualcuno l’identità che ci si sta faticosamente costruendo. Ne è uno splendido esempio la storia d’amore omosessuale al centro di Viaggio, in cui anche il modo di vivere le relazioni affettive diviene un viaggio, cioè un tentativo di  affermare la propria identità a dispetto delle convenzioni. La minaccia peggiore per il rapporto d’amore è quindi la stasi, a cui vengono contrapposti i momenti di e-stasi vissuti dal protagonista con il suo compagno.

 

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Pier Vittorio Tondelli

 

Al tempo stesso, l’alcol e le droghe, come per i beat, contribuiscono a espandere i confini della percezione, pur nascondendo un pericolo: quando ci si vede negato l’affetto della persona amata, il ricorso a sostanze stupefacenti non è più una ricerca di libertà, ma un tentativo di ottundimento della coscienza. Si rinuncia a muoversi, a livello mentale e fisico:

 

“Da solo non gliela faccio, è difficile difficile, guardo la tv da mattino a sera, nient’altro; […]. Via un giorno dietro l’altro del calendario a muro, tutti i foglietti che si perdono per la cucina e stanno lì tra i piedi a ricordarmi ogni momento che Dilo non torna, ogni foglietto un giorno di noia. Poi una sera che sono sul letto a leggere sento far casino attorno alla serratura e così mi alzo e faccio appena in tempo ad arrivare all’ingresso che entrano tre quattro mai visti prima e con loro c’è Dilo […]. Dilo s’incazza e fa battute odiose perché il frigorifero è vuoto e sguarnito che pare la siberia, e c’è solo una qualche birra a metà e così dice a me che sto in disparte ma di che vivi, che mangi?”

 

La freschezza di Altri libertini, così come dei romanzi di Kerouac, sta nel modo in cui viene raccontata la giovinezza. È certamente un’età della vita, ma coincide soprattutto col desiderio di abbracciare il massimo di realtà possibile, per scoprire l’essenza delle cose. Pier Vittorio Tondelli e Kerouac colgono appieno la frattura tra l’urgenza di tale aspirazione e le spinte omologanti della società occidentale, che sembra promettere libertà illimitate, ma in realtà costringe alla stasi.

 

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Jack Kerouac, beat per antonomasia

 

Ecco allora che, a partire dal dopoguerra, i periodi di alcuni scrittori si ampliano indefinitamente, così come i fraseggi dei sassofonisti e il colore sulle tele dei pittori: pensate all’action painting di Pollock e Vedova, in cui – guarda caso – la creazione dell’opera dipende dal movimento di tutto il corpo dell’artista.  L’arte cerca di conservare uno spazio di libertà, in cui ci si possa muovere per indagare incessantemente la realtà e aspirare al meglio: tutto questo è racchiuso nel senso e nella forma delle ultime frasi di Autobahn, l’episodio che chiude Altri libertini  del beat italiano Pier Vittorio Tondelli e con cui mi sembra si possa concludere anche questa riflessione:

 

“Solo questo vi voglio dire credete a me lettori cari. Bando a isterismi, depressioni scoglionature e smaronamenti. Cercatevi il vostro odore eppoi ci saran fortune e buoni fulmini sulla strada. Non ha importanza alcuna se sarà di sabbia del deserto o di montagne rocciose, fossanche quello dell’incenso giù nell’India o quello un po’ più forte, tibetano o nepalese. No, sarà pure l’odore dell’arcobaleno e del pentolino pieno d’ori, […] sarà l’odore delle paludi, dei canneti, dei venti sui ghiacciai, saranno gli odori delle bettole di Marrakesh o delle fumerie di Instanbul, ah buoni davvero buoni odori in verità, ma saran pur sempre i vostri odori e allora via, alla faccia di tutti avanti! Col naso in aria fiutate il vento, strapazzate le nubi all’orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti insieme incontro all’avventuraaaaa!”