Mark Linkous e il suo triste e bellissimo mondo.

Si parte, con la consapevolezza di poter non tornare più.

 

Forse non c’è simbolo più forte a identificare la generazione musicale 90s, sia essa intesa per gli artisti che per il flusso sanguigno di ascoltatori, della copertina che il Melody Maker mise alle stampe per l’8 aprile 1995. Appaiati come due protagonisti banditi di una taglia far west, con lo sguardo che in modi diversi ci sfida, Kurt Cobain e Richey Edwards sono messi non di una cifra di riscatto, bensì di una domanda, di un’affermazione, di un pugno, di una tomba vuota: from despair to where, dalla disperazione a dove. Era già passato un anno dal suicidio del leader dei Nirvana, mentre il poeta dei Manic Street Preachers era sparito da due mesi, inizio di un’incertezza che non ha tuttora trovato fine, se non a livello burocratico (è stato dichiarato, con formula paradossale, “presunto morto” il 23 novembre 2008).

 

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La copertina di Melody Maker dedicata a Kurt Cobain e Richey Edwards

 

Metterli affiancati non fu affatto un caso, tantomeno un abbaglio, poiché il Cristo Cobain e il Sacher-Masoch Edwards erano volti bifronti di una stessa realtà, quella di una generazione figlia del post Thatcher-Reagan, incapace di trovare punti di riferimento, se non quelli della propria fragilità interiore; di un cantautorato (opposto a quello non meno profondo ma certamente più ludico, il britpop) che in quegli anni ha tentato disperatamente di esprimere quel vuoto, quel “sapere di non credere in niente, ma è il mio niente”.

 

Nell’agosto di quell’anno la disperazione trovò inizio di un possibile dove in un clown. Senza pupille, senza naso, senza capelli, con il solito sorriso ambiguo “da clown”, il volto galleggiante in un cielo azzurro pieno di nuvole. Una copertina che penetra molto più del titolo, lunghissimo e difficilmente pronunciabile, Vivadixiesubmarinetransmissionplot (forse omaggio a Swordfishtrombones dell’amatissimo Tom Waits), ma mai quanto la musica. E i testi.

 

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La copertina di Vivadixiesubmarinetransmissionplot, capolavoro degli Sparklehorse, band capitanata da Mark Linkous

 

L’autore era insospettabilmente vecchio per un esordio rock, quasi 33 anni, e poco importa se stiamo mentendo, dato che il sodalizio tra Mark Linkous e la musica (registrata) iniziò dieci anni prima con 12 Jealous Roses, l’esordio della sua prima band, i Dancing Hoods. Perché con la sua nuova avventura, la maschera a nome Sparklehorse, ha saputo dar voce al vuoto, della propria vita e di una generazione.

 

Una fuga che iniziò subito, appena azionato il play di  Vivadixiesubmarinetransmissionplot:

 

“A horse, a horse, my kingdom for a horse”.

 

Il primo verso della prima canzone del primo album del progetto Sparklehorse, Homecoming Queen, cita Shakespeare come punto di non ritorno. Da cosa può fuggire, Linkous? Di che regno parla?

 

 

Il 23 gennaio 1996 Linkous era in tour come spalla dei Radiohead, impegnati a promuovere The Bends e prossimi alla registrazione di Ok Computer. Durante quella tappa a Londra il cantautore andò in overdose per una miscela di valium, alcool e antidepressivi. Nel perdere conoscenza, cadde in una posizione innaturale, affossando le gambe sotto il corpo. Rimase così per quattordici ore. Dopo essere stato nominato tecnicamente morto per un paio di minuti, venne miracolosamente salvato, ma le sue gambe, nemmeno dopo sei mesi di sedia a rotelle e riabilitazione, sette interventi chirurgici e due anni di morfina terapeutica, sarebbero più tornate quelle di prima. Come si può fuggire senza gambe? Come si può vivere dopo essere morto?

 

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Una delle foto più rappresentative di Mark Linkous

 

“Effettivamente morii in apparenza e questo mi inquieta davvero,” avrebbe poi ricordato Linkous.

 

“La morte e tutto il concetto dell’inevitabile ha ispirato una quantità così grande di arte che pensi che se dovessi morire qualcosa magari ti verrà rivelato. Ma non ho alcun ricordo di ciò che successe. Forse perché non c’è alcuna grande redenzione. Forse è solo un grande nulla, il grande vuoto. Devo aspettare di morire ancora per scoprirlo.”

 

In effetti, se ci è concessa la banale citazione cinefila, Linkous è stato davvero l’uomo che morì due volte: un simile episodio non può che segnare profondamente il miracolato e se in quella camera d’albergo londinese la morte fosse riuscito a baciarlo, Vivadixiesubmarinetransmissionplot sarebbe ora un classico iconico a la Grace, a la Pink Moon o a la From a Basement on the Hill.

 

Ma se quello fu l’inizio di un pur breve viaggio anziché di una fine non deve far dimenticare che il disco rimane uno degli esemplari più cristallini di cantautorato usciti negli anni 90. Con un titolo “ispirato da un sogno che ebbi sul generale Lee in possesso di un sottomarino primitivo durante la Guerra Civile, dentro il quale potevo sentire una vecchia band il cui suono era distorto dall’acqua”, l’album tradisce le origini di Mark Linkous. Nato il 9 settembre 1962 ad Arlington, in Virginia, Mark Linkous ha sempre portato con sé il sangue, il dna della sua terra. In una intervista, quando viveva ad Enon (sempre in Virginia) disse:

 

“Vivo in una vecchia, grande fattoria. Non c’è città. Non c’è niente. Ci sono un sacco di animali e moto. È tranquillo. È l’antitesi di Los Angeles. È a un’ora da Richmond. Richmond è la più grande città della Virginia. Dove sono io, non c’è nulla fuorché contadini. Gente di campagna”.

 

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Mark Linkous nel 1995 con una delle sue moto vintage. Foto di Danny Clinch

 

Proveniente da una famiglia per tradizione di minatori, il giovane Mark cercava un altro approccio con la propria terra. Come un’altra colonna portante del cantautorato intimista di quella generazione, Mark Kozelek, Linkous ebbe una gioventù di ribellione, violenza e primi, massicci approcci con alcool e droga. I suoi divorziarono quando era appena adolescente. Sfogò questo suo trambusto interiore anche con la musica, suonando in quella che fu a suo dire la prima band punk di Charlettosville (“una cosa a la Buzzcock, punk melodico”). Oltre al punk, i primi amori musicali furono Johnny Cash, Alice Cooper, i Blondie (“fu il primo concerto a cui ho assistito in vita mia. Cristo, lei era stupenda”) e i Led Zeppelin.

 

Vivadixie vive di queste influenze contrastanti, tra melodia e rumore, tra suono gentile e produzione rozza, quasi improvvisata (famosa la sua affermazione riguardo a questo punto: “Non sapevo cosa stavo facendo”). E con testi indimenticabili. “Santo di barconi/regina delle unghie/fulgide batterie/omicidi di corvi/denti metallici di caroselli/sigari accesi su sedie elettriche” (Cow); “I parassiti ti ameranno/quando sarai morto/la la la la la” (Weird Sisters); “La luna sorgerà con una così grande/risata equina/sta trascinando pianoforti verso l’oceano/se avessi una casa/sapresti che si troverebbe/in un trombone che scivola” (Spirit Ditch).

 

 

La rabbia è sempre sottopelle, non esplode mai, ma allo stesso è onnipresente, sia nel suono ruvido che nei versi. Poi si va in overdose. A horse, a horse, per un regno che non c’è.

 

P-orco, oh, p-orco

Perché non mi canti quella

Ninna nanna graziosa

E quando l’hai cantata per bene

Fai le valigie

Voglio una nuova faccia in quest’istante

E la voglio di brutto

Voglio un nuovo corpo che sia forte

Sono una vacca maciullata

Voglio provare a volare

Voglio provare a morire

Voglio essere un porco

Voglio scoparmi un’automobile

Voglio essere uno stupido e idiota figlio di troia ora

Voglio essere una troia dalla pelle dura ma non so come

Voglio essere un bimbo nuovo di zecca con un cervello spugnoso

Voglio essere un cavallo pieno di fuoco che non regnerà mai

 

Uscito nel luglio del 1998, Good Morning Spider si apre nel modo più emblematico, brutale e diretto possibile. Pig vomita tutto il dolore furioso e frustrato accumulato negli ultimi due anni, a segnalare che l’album, pur continuando l’iter artistico indirizzato dall’esordio, sarà più duro, monocromatico. Un’esperienza come quella della riabilitazione non può non richiedere voce.

 

 

Continuando la sua idiosincratica produzione casalinga, Mark Linkous forse non riuscì a trovare gli equilibri di Vivadixie, ma continuò a pennellare testi che vanno annoverati tra gli apici della poesia rock degli anni ‘90, uno su tutti quello di Chaos Galaxy/Happy Man, dove ribadisce il suo dolore di disabilità con immagini verbali nitidissime (“Mi svegliai nello stomaco di un cavallo/in un mattino nebbioso/I suoi occhi erano folli e sfasciò i cancelli del cimitero”).

 

Tra l’altro in quello stesso anno registrò con i Radiohead uno dei pezzi per cui è ora più famoso, la cover di Wish You Were Here dei Pink Floyd. Un inno che ora sa di requiem verso se stesso.

 

 

L’11 settembre 2001 l’America rurale e immaginifica cantata da Mark Linkous subisce un colpo ben più visionario e reale allo stesso tempo, con l’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Due giorni prima il cantautore aveva compiuto 39 anni e solo un mese prima, ironia della sorte, aveva pubblicato un album il cui titolo aveva il sapore di beffa: It’s a Wonderful Life.

 

Sono

L’unico

Che può portare il cavallo

Così in là

Sono pieno di api

Morte nel mare

È una vita meravigliosa

È una vita meravigliosa

Mi sono ricoperto

Di sangue di un gallo

Quando questo volò

Come colombe

Sono una palude

Di rane avvelenate

È una vita meravigliosa

È una vita meravigliosa

Sono il cane che ha mangiato

La tua torta di compleanno

È una vita meravigliosa

È una vita meravigliosa

 

 

Riletto solo un mese dopo la sua pubblicazione, il testo della title-track ha il sapore amaro della preveggenza, una colonna sonora in versi della tragedia. Eppure il disco è il più limpido e ricco del catalogo Sparklehorse, forte di una produzione stavolta professionale in tutto e per tutto (fu coadiuvato da Dave Friedmann, produttore di fiducia di Mercury Rev e Flaming Lips, e John Parish, uomo dietro gli album di PJ Harvey) e di ospiti di eccezione come la stessa PJ Harvey, Nina Persson dei Cardigans e l’adorato Tom Waits, per contattare il quale si sgolò prima cinque whisky e si chiuse a chiave in stanza (non rimase però soddisfatto di Dog Door, la canzone co-scritta proprio con il suo idolo). A impreziosire il tutto Sonic Cinema, i video delle canzoni dell’album realizzati da nomi di primo piano della cinematografia, tra cui i fratelli Quay e Guy Maddin (autori dei video rispettivamente di Dog Door e la title-track).

 

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Gli Sparklehorse nel 1995. Da sinistra: Scott Fitzsimmons, Johnny Hott, Scott Minor, Mark Linkous, Paul Watson. Foto di Danny Clinch

 

Oltre ad essere il suo lavoro più completo, It’s a Wonderful Life fu il successo commerciale più grande della sua carriera. Ma fu anche la fine del periodo artisticamente più felice per Linkous. Attriti con la Capitol, etichetta dei suoi primi tre album, contribuirono a rendere più difficoltosi gli anni musicali a seguire del leader degli Sparklehorse, anche per una sua gelosia d’indipendenza che ha sempre reso difficoltoso il rapporto coi potenziali produttori.

 

Un’indipendenza che l’ha visto aiutare altri artisti vestendosi da produttore in prima persona, come nel caso dell’album d’esordio degli A Camp, il progetto parallelo ai Cardigans di Nina Persson, o l’outsider Daniel Johnston, diventato figura cult dell’alternative americano anche per la sua lotta contro la schizofrenia.

 

 

Un’indipendenza anche profetica, dato che in un’intervista rilasciata nel febbraio del 2002, alla domanda su cosa consigliasse ai musicisti esordienti, predisse l’avvento della “musica liquida”, rispondendo di comprare una quattro tracce da 99 dollari e pubblicare le registrazioni su internet, in totale autonomia, saltando il passo di contatto con le case di produzione e distribuzione.

 

Pubblicato un ultimo album sotto la Astralwerks Records nel settembre del 2006, Dreamt for Light Years in the Belly of a Mountain, l’ep In The Fishtank 15 con il maestro del glitch Fennesz nel 2009  e una collaborazione con Danger Mouse piena di ospiti (tra gli altri Iggy Pop, Wayne Coyne, Black Francis, Nina Persson, Susanne Vega, addirittura Sua Oniricità David Lynch), uscita con oltre un anno di ritardo per una disputa legale con la EMI e con un titolo a dir poco rivelatore, Dark Night of the Soul, Mark Linkous scoprì di non avere più forze.

 

 

In un’intervista, alla domanda se credesse in una religione qualunque, Linkous rispose:

 

“non dopo quello (riferendosi all’overdose del ‘96, ndr). Non mi ha portato ad alcun risveglio religioso. Ho sempre mantenuto una posizione agnostica, penso. Credo che ci sia un Dio, ma non credo che possa essere spiegato o capito. Che tu stia evocando una intelligenza superiore come Dio o la natura, può essere visto come la stessa cosa. Nel West Virginia ci sono gli addestratori di serpenti. Sono un livello differente. È davvero stimolante, sia essa la religione o qualsiasi cosa in grado di poter fare ciò.”

 

Il 6 marzo 2010 Mark Linkous ha cercato l’insondabile. Il non spiegabile, il non capibile. Il livello differente. In Sick of Goodbyes cantava che “nessuno ti vede in un pianeta vampiro”; ha provato a uccidere quel mondo succhiasangue con un paletto al cuore, come folklore vuole. Un proiettile di fucile al petto in un vicolo fuori la casa di amici, a Knoxville, come saluto alla wonderful life. A horse, a horse, my kingdom for a horse. Era un sabato.

 

Sei un’automobile

Sei un ospedale

Farei andata e ritorno dall’inferno

Per vederti sorridere

Di sabato

Sei una stella

Sei un mare d’aria

Suono fantastiche tastiere

Di denti di cavallo

Di sabato

Vorrei dirti

Come mi sento

Ma probabilmente aspetterò

Fino a sabato

 

Ma proprio perché stanco degli addii, non ha salutato davvero. La sua arte rimane per ispirare, allietare, indicare vie. Toccare.

 

“Così tanta gente ha scritto ora che la mia musica li ha toccati. Alcune tra le lettere di complimenti giuntemi sono di rockstar. Mi ha meravigliato. E mi ha aiutato a star bene e non mollare. Ho sentito come se avessi ancora del lavoro da fare, che ci fosse una ragione per cui sono qui. Il mio obiettivo è creare qualcosa di bello, piccoli pianeti di musica. C’è già abbondanza di bruttezza in questo mondo che preferisco fare qualcosa di bello.”

 

Oggi forse più che mai di quella bellezza abbiamo bisogno. From despair to beauty: sembra il titolo di un album.

 

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