La nascita dell’Hip Hop attraverso la nostra chiacchierata con Afrika Bambaataa in occasione del suo tour in Italia.

Quando parli con artisti come Afrika Bambaataa ed Mc Whipper Whip, su un divanetto nel backstage di un locale, tra l’odore di deodoranti per ambiente e qualche birra ghiacciata, ti rendi conto che episodi che per te sono Storia della Musica, per loro rappresentano semplici aneddoti di una vita passata sul palco. L’imponente figura di Afrika, l’energia esplosiva di Whip e l’aria rarefatta del camerino diventano la cornice di un racconto dei ricordi fatto di foto in bianco e nero salvate sul cellulare, rime improvvisate e uno slang che nel suo svolgersi ha il suono e il ritmo della poesia popolare. Una lunga chiacchierata tra flashback, salti in avanti e sensazioni impossibili da imprigionare nel rigido schema di un’intervista che non renderebbe giustizia all’incredibile energia del loro live. Meglio raccontare, interpolare, seguendo il ritmo stesso di questa prima data del tour di Bambaata in Italia,quando il suo tridimensionale mondo musicale è esploso vibrante dalle casse investendo il Combo di Firenze per l’evento di Autentica.

 

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Afrika Bambaataa al Combo. Foto di Claudio Caprai per Autentica

 

Sono gli anni settanta, e il Bronx è un vasto e popoloso quartiere di New York dove la comunità afroamericana vive ignorata dalle istituzioni e dalla società. La popolazione giovanile è in parte divisa in gang, che sostengono i propri membri e combattono con le altre per il controllo del territorio. Kevin Donovan è il capo di una di esse, i potenti Savage Seven, quando parte per l’Africa, un mito e una madre spirituale per tanti afroamericani negli anni successivi a Malcolm X.

«Fu bellissimo, connettersi con la natura, con la nostra madrepatria (motherland).Ci siamo tornati recentemente e ho sentito il forte legame con la terra, se penso che tante persone fanno così poco contro il cambiamento climatico che sta distruggendo il pianeta…»

Il viaggio trasforma completamente gli orizzonti di Donovan. Ritornato nel Bronx decide di indirizzare il fermento artistico che sta germogliando in quegli anni tra i palazzi e le strade, sulle panchine nei parchi e nelle piazze, per interrompere il ciclo di violenza che imprigiona tanti suoi coetanei, costretti ai margini della società. L’arte, la musica, la knowledge (conoscenza e consapevolezza) come la definisce lui stesso, saranno gli strumenti di emancipazione per riappropriarsi del loro destino e costruire qualcosa di nuovo. Ispirato da questa visione, Kevin adotta il nome del capo zulu Bambaataa, fonda la Bronx River Organization per prendersi cura della sua zona e la Zulu Nation per ricondurre l’universo delle gang all’interno della nuova cultura hip hop. Ci sono molte storie su come sia nato questo nome che racchiude le quattro discipline di djing, rap, breakdance e graffiti, io amo molto quella narrata da Ed Piskor nel suo Hip Hop Family Tree.

 

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Dal fumetto Hip Hop Family Tree di Ed Piskor

 

Il Bronx nei settanta è ricco di Block Party animati dalle performance leggendarie di dj come Grandmaster Flash, che si esibisce con gli mc Cowboy, Melle Mel e Kid Creole. Un giorno GMF viene a sapere che il suo amico Billy si è arruolato nell’esercito, allora organizza una festa per salutarlo: immaginatevi una piccola piazza tra palazzi alti decine di piani, colorati dai primi pezzi dei writers del Bronx, dove una folla di giovani balla, suona e canta libera per una giornata intera. Ogni mezz’ora GMF mette la stessa routine e i tre mc partono scimmiottando l’esercito: “Left, Right, Left, Right, Hip, Hop, No Stop” e così via, tutto il giorno. Da lì è un attimo, e chiunque nel quartiere parla di “festa hip hop dell’altro giorno”.

 

Grandmaster Flash e Afrika Bambaataa sono, con Dj Breakout e Kool Herc, i re dei Block Party nel Bronx di quegli anni, e proprio come per il territorio delle gang, anche i soundsystem dividono il quartiere in aree di influenza con stili e scelte musicali molto diversi. Attorno a loro prolifera una vasta foresta di artisti in erba che si fanno le ossa sulla strada, nei parchi o in club come il Disco Fever di Sal Abatiello nel South Bronx. Per loro la Zulu Nation e il leader Afrika Bambaataa sono un punto di riferimento che lega tutti, non solo con la musica ma anche con un concreto supporto. Quando gli L Brothers vengono sfidati da Grandmaster Flash, che porta con sé il suo potentissimo impianto, Afrika interviene per equilibrare la lotta dando ai Brothers dischi che la folla ama, come il tema della Pantera Rosa.

 

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Soundsystem nel bronx

 

Dopo aver sentito dell’emersione della giovane Crash Crew, Bam li incontra per passare loro un po’ dei suoi insostituibili vinili (tra cui “Get Up and Dance” dei Freedom). A noi sembrano cose da poco perché ci sfugge la profonda conflittualità che permeava il Bronx delle gang nei ‘70 e la fame di successo di chi vi cresceva, anni in cui i dj staccavano le etichette dei propri vinili con l’acqua per non condividere le playlist con gli avversari. Questo messaggio di fratellanza e supporto reciproco di Bambaataa non è cambiato negli anni:

«La mia musica vuole dire alle persone di amare, essere in pace e felici, rispettarsi a vicenda, godersi e vivere le vita (enjoy and be alert to life

In un’epoca cinica e disillusa come la nostra, potremmo pensare che queste parole non siano più che un’eredità di ricordi e buone speranze, se non vedessimo tutti i giorni quanto la cultura hip hop sia riuscita davvero, grazie anche ai propositi e alle azioni di artisti del calibro di Bambaataa, nel suo obiettivo di unire e trasformare la vita di tante persone. Sul palco del Combo, l’energia di quei Block Party è ancora viva: Whipper Whip scuote il pubblico, mentre Bambaataa suona sapiente alle sue spalle, imperturbabile anche quando uno degli mc salta sulla dancefloor e improvvisa una breakdance circondato da un’energia che neanche la foresta frusciante di telefonini alzati può stornare.

 

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Afrika Bambaataa ha portato sul palco del Combo l’energia dei Block Party. Foto di Claudio Caprai per Autentica

 

Le feste, le performance dal vivo, sono l’habitat naturale di Bambaataa. Nei camerini, mentre parliamo prima dello show, Whipper Whip mi mostra sul telefono le foto di quei live degli anni ’80, scatti in bianco e nero salvati sul cellulare e conservati come ricordi preziosi.

«Questo è Cool Herc… Qui c’era Herbie Hancock… Forse questa era la volta al Bronx River Community Center. È divertente pensare come sono andate le cose. Tutto era spontaneo: alcuni di noi, come Jazzy Jay, costruivano le proprie casse e i propri soundsystem, lo scratching lo scoprì Grandmaster Flash per caso durante una discussione con sua madre. La scena è cambiata molto dai parchi ai club e poi ai grandi concerti»

Bambaataa è uno dei primi a portare tutte le quattro discipline dell’hip hop in un unico show sui palchi di New York, quando Michael Holman e Malcom McLaren, che aveva definito questa forma d’arte “la più grande scoperta culturale del ventesimo secolo”, ingaggiano un folto gruppo di dj, mc, breaker e writer per fare da supporto al gruppo pop/punk Bow Wow Wow. Il 14 settembre del 1981 al Ritz ci sono Afrika Bambaataa e Jazzy Jay ai piatti, Futura 2000 ai graffiti, Fab Five Freddy come MC e la Rocksteady Crew a fare breakdance. Dopo lo spettacolo Ruza Blue e Holman decidono di creare una serata fissa al club reggae Negrill di Manhattan. Il genere sbarca nella city e non c’è da stupirsi che siano stati (anche) McLaren e la scena punk a contribuire a questo successo: i due mondi musicali infatti vivevano contigui nei sobborghi della grande città, come dimostra, tra le tante, la parabola dei Beastie Boys, iniziata come Young Aborigenes nell’alveo dell’Hardcore Punk e poi sviluppatasi in un crossover col rap fortemente sponsorizzato dal loro impresario, il grande Rick Rubin.

 

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Il manifesto delle serate hip hop del Negrill

 

Dopo il 1981 inizia quello che possiamo considerare l’annus mirabilis del genere, il periodo che va dal 1982 al 1983, e che si prolunga nel tempo con l’uscita di alcuni capisaldi dell’hip hop. In questo anno, tra le molte produzioni: il singolo “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five, che parla della vita di tutti i giorni nel Bronx, esce per la Sugar Hill; Herbie Hancock vuole inserire gli scratch nel brano Rockit, e il produttore Bill Laswell si fa indirizzare da Bambaataa verso il talentuoso GrandMixer D.ST, con il quale Hancock finirà agli Emmy Awards esibendosi sulla TV nazionale e influenzando così tutta la nuova generazione di dj americani (come Mixmaster Mike e Dj Qbert); Style Wars, il documentario sui graffiti di Henry Chalfant e Tony Silver, va in onda sulla PBS dopo un’anteprima in un cinema di New York; Charlie Settler e Lynda West, col sostegno della Coca Cola, organizzano un contest rap sul loro disco Tin Pan Apple/Afterdark, alla Radio City Music Hall, e nonostante il boicottaggio del sindacato dei tecnici (indignato per la presenza di afroamericani sul palco), lo show è un grande successo, presentato da Mr Magic e vinto dagli UTFO e dai Disco Three. Ma per Bambaataa la data più importante di quell’anno è il 17 aprile 1982:

«Ero un avido collezionista di dischi e all’epoca sperimentavo, perché noi della Zulu potevamo permettercelo e tutti gli altri guardavano alle nostre feste per capire cosa avrebbe funzionato. Trovai il disco di questi quattro tipi (i tedeschi Kraftwerk, pionieri della musica elettronica ndr), mi sembrò strano così decisi di provarlo e rimasi sbalordito. Era techno pop, mi dissero, derivato dalla Yellow Magic Orchestra, ascoltai anche loro, poi Gary Numan, la new wave e le colonne sonore dei film Halloween. Pensai che se riuscivo a riprodurre quei suoni e adattarli a James Brown, Sly and the Family Stone e George Clinton sarebbe stato qualcosa di nuovo. Non esisteva una musica elettronica afroamericana nel Bronx. Presi quattro dischi che suonavo molto alle feste della Zulu Nation: “The Mexican” di Babe Ruth, “Super Sperm” di Captain Sky, “Numbers” e “Trans Europe Express” dei Kraftwerk, e li misi assieme, così nacque il singolo“Planet Rock”»

Afrika Bambaataa riunisce Mr Biggs, G.L.O.B.E. e Pow Wow (The Soul Sonic Force) e con soli 800 dollari, grazie alla Tommy Boy Records di Tom Silverman, fondata l’anno prima, pubblica “Planet Rock”. Il disco vende 650.000 copie e diventa disco d’oro in pochi mesi, spopola sia in Uptown che Downtown e da’ alla luce un nuovo genere, di cui Bambaataa è considerato a ragione il padre: l’electrofunk.

 

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La copertina di Planet Rock: The Album

 

Sulla scia di quel grandissimo successo usciranno anche “Looking for the Perfect Beat” e “Renegades of Funk”, poi riuniti in “Planet Rock: The Album” del 1986. A quel punto la scena è matura per l’arrivo delle nuove leve: Dr Dre, Puff Daddy, Biggie Smalls, Tupac Shakur, Jay-Z e molti altri che formeranno i nuovi indirizzi artistici dell’hip hop tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta. Durante il set questa lunga storia ancora incompiuta è sempre presente: dai suoi pezzi a quelli di Funkadelic, Bambaataa legge sapientemente il pubblico, sta passando al reggaeton ma poi si accorge, con mio grande piacere, che Firenze vuole la old school e torna sui classici con Egyptian Lover, leggendario dj della West Coast e ospite della serata precedente organizzata sempre da Autentica. Racconta una storia senza confini che fluisce attraverso i piatti fino alle persone, vibrando in ognuna di esse secondo le loro diverse inclinazioni. Una vera filosofia artistica di cui mi parla dopo, mentre seduto sul divano indica i poster appesi alle pareti del backstage:

«Molte persone dicono di ascoltare solo un tipo di musica, l’unica che piace loro, ma io non sono d’accordo. Vedi tutti questi grandi artisti, perché Jimi Hendrix, Bob Marley, i Beatles, Alicia Keys non possono stare assieme? Noi dovremmo mescolare la musica (We should mix up the music), per riunire persone di ogni tipo. Ci sono così tante divisioni tra di noi, tanto odio, che finiamo per distruggere noi stessi e il pianeta, perché alimentare il disprezzo? Se scrivi o suoni canzoni che disprezzano il prossimo, le donne ad esempio, poi chi ti ascolta lo farà. La musica deve unire le persone, non dividerle».

 

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Afrika Bambaataa

 

Anche la nostra chiacchierata non ha più confini, scivola un po’ dappertutto mentre sulla dancefloor cala il silenzio, il pubblico tarda ad andarsene e la notte volge al mattino. Finiamo a parlare di astronavi e viaggi spaziali, luoghi immaginifici dove Bambaata confessa di essere stato tante volte con la fantasia. E io penso alla storica copertina di “Planet Rock: The Album”, con i suoi costumi mitologici, la veduta della terra dallo spazio, i vinili come dischi volanti e capisco che stasera ho toccato qualcosa di vero, di profondo, che cresce da decenni influenzando le percezioni e i gusti di tutti noi, una storia, quella dell’hip hop, che ha fatto la Storia.

 

Un ringraziamento particolare ad Anneka Stevens, Virginia Fabbiani e Iacopo Tonini per il loro supporto.

 

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