La quinta stagione di House of Cards si prepara a trasportarci nella realtà americana.

Quel finale così drastico, caricato, quasi spaventoso, della quarta stagione di House of Cards, ci aveva lasciato tutti di sasso. Un uomo e una donna, nella stanza più inaccessibile del mondo, guardavano dritti lo spettatore, promettendogli nientemeno che il terrore. Un ending scioccante (probabilmente il più bello, insieme a quello che ha concluso la stagione numero due), che ha lasciato di stucco i fan della serie originale Netflix – ma trasmessa in Italia, ogni mercoledì, da Sky Atlantic HD –, rimasti in attesa di capire fino a dove si sarebbero spinti Frank e Claire Underwood nella quinta, attesa stagione. A conti fatti, con i primi due capitoli trasmessi (le ‘puntate’ lasciamole alle serie comuni…), una cosa è chiarissima: la produzione, gli sceneggiatori – che hanno però perso Beau Willimon, creatore stesso della serie – hanno mantenuta la parola data di garantire uno spettacolo prolisso che spinge sulle leve della strettissima attualità.

 

House of Cards Stagione 5 1

La stagione 5 di House od Card garantisce uno show molto legato all’attualità

 

Infatti, i capitoli che vanno dal 53 al 65 (con altri tredici non ufficiali ma già impegnati), sembrano usciti direttamente dalle pagine del Washington Post, con una politica, quella intrapresa da Frank e Claire, che, alle soglie delle votazioni, se la deve vedere non solo con Will Conway (Joel Kinnaman), candidato repubblicano atipico, giovane e bello, ma anche e soprattutto con la minaccia dell’ICO – sigla inventata ma sottilmente legata all’ISIS –, rea di aver sequestrato e decapitato, per mano di due statunitensi convertiti, in diretta televisiva, James Miller, cittadino americano.

 

La caccia all’uomo – uno dei due terroristi è stato ucciso dall’NSA – si fa dunque asprissima, miscelando giustizia, populismo politico e occasioni da sfruttare, rivendendole, poi, in chiave dell’Election Day, in cui gli ”alleati” di Frank e Claire mutano repentinamente forma e colori, ballando su di una scacchiera in cui tutti possono/devono andare contro tutti. A cominciare, in particolar modo, dagli altri co-protagonisti: lo scrittore Thomas Yates (Paul Sparks), il Segretario di Stato Cathy Durant (Jayne Atkinson), la manager della campagna elettorale LeAnn Harvey (Neve Campbell) e, fondamentali, il capo ufficio stampa Seth Grayson (Derek Cecil) insieme al fidatissimo capo staff Doug Stamper (Michael Kelly), che si conferma come uno dei personaggi più interessanti e complessi dello show.

 

House of Cards Stagione 5 2

Doug Stamper e LeAnn Harvey

 

Tornando alla narrazione, quello che, a conti fatti, anticipano i tredici capitoli della nuova stagione di House of Cards, è l’evoluzione storica degli Stati Uniti d’America contemporanei. È incredibile quanto in questa stagione, dopo che le precedenti hanno giocato con la politica in modo sicuramente coriaceo e realistico (probabilmente l’unica serie, insieme ad Homeland, a riuscirci), ma pure romanzata e decisamente shakesperiana, i toni si fanno più oscuri – anche se pur sempre eleganti, ricercati, maestosi, come ci ha abituato una delle serie-capolavoro di questi anni –, con gli Underwood che, da spietati, diventano il fulcro stesso del terrore.

 

Perché, ci spiegano gli ormai solidissimi (e come dubitarne) Kevin Spacey (pazzesco il cambiamento fisico percorso dal capitolo 1) e Robin Wright (il character più amato, la First Lady con propensione polivalente e universale), la paura stessa è il generatore che alimenta l’opinione pubblica: il cittadino americano, e quindi quello globale, vuole la sicurezza a tutti i costi, vuole essere protetto oltre quel giardino che divide il potere dal popolo. Poco importa se i costi, poi, prevedono un rastrellamento continuo del territorio nazionale, un aggirarsi furtivamente nel sottobosco che si lega ai favori dei più o meno influenti governatori degli stati, oppure se la sicurezza nazionale passa attraverso auto-attacchi informatici mascherati da attacchi esterni. Poco importa, se i confini stessi di un giardino in cui la libertà è il lascito stesso dei Padri Fondatori, vengono sbarrati e sigillati, in nome di una sicurezza che fa da slogan politico, echeggiando nei corridoi marmorei in cui, gli occhi di Washington, Jefferson, Lincoln, Roosvelt, Kennedy, osservano silenziosi le folli (ma appassionanti) gesta di un uomo (solo) al comando. Finzione? Mica tanto.

 

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