Chi è il cane di chi?
Fin dalla scena d’apertura, Dogman rivela il suo spessore artistico, la sua capacità di parlare sottilmente. Il protagonista è alle prese con un cane dalla ferocia inaudita, lo lava servendosi di un bastone, tenendosi a debita distanza. Si avvicina un po’, lo ammansisce, scherza con lui mentre lo asciuga. Le grandi opere hanno questa capacità di tenere in stretto rapporto gli elementi minimi con la struttura stessa in cui sono contenuti: succede con la Commedia (scomodo e ingombrante esempio!), quando Dante personaggio vede il colle-prefigurazione della salita, e poi il sole-prefigurazione dell’ascesa al cielo; succede con Furore di Steinbeck, quando Tom e il reverendo si incontrano cercando rifugio all’ombra di un albero, inaugurando un’opera tutta incentrata sulla ricerca di un rifugio, di una casa. E succede, dunque, anche con Dogman. L’uomo toiletta la bestia inferocita, ne è asservito, proprio come lo scopriremo asservito a Simone, gigante smodato e violento.
Per indagare meglio il rapporto tra i due personaggi, sarà bene fare una piccola premessa. Il nuovo film di Garrone è tutto inserito in una dimensione assoluta, cosa di cui si sente gran bisogno, in questi tempi di neo-neorealismo. Parte della sua grandezza sta nell’ispirarsi a un fatto di cronaca – il famoso “canaro” della Magliana – senza tuttavia limitarsi al ricalco, e nemmeno all’iperbole o alla drammatizzazione esasperata: no, Garrone coglie le linee essenziali del conflitto tragico e le trasfigura, crea una dimensione personalissima, un campo di forze in cui i personaggi diventano maschere potenti (straordinaria la scelta degli attori). Non sono le spiegazioni a interessare il narratore: chi sia Simone, perché sia diventato così, se lo sia sempre stato – sono cose che restano in secondo piano.
La tragedia, come la fiaba, non spiega, si limita a mostrare quel che è importante mostrare, e la cosa importante è l’esistenza di questa forza distruttiva incarnata da un gigante brutale, sovrano di un quartiere, terrore non solo dei deboli, ma di chiunque si opponga alle sue voglie, pronto com’è a sbaragliare ogni tentativo di ragionevolezza. Simone è la forza ctonia che devasta il logos. Terrorizza perché riporta alla vulnerabilità dello scontro primordiale, al contesto in cui le parole non servono a niente.
Miracoloso Garrone nel rappresentarlo, senza cedere mai un secondo al facile umorismo, il quale avrebbe anche i vantaggi di temperare un’atmosfera cupa: e invece, non appena le prepotenze di Simone stanno per farci sorridere – e quindi per far crollare tutto il film nella meschinità del tragicomico – è a quel punto che il regista riesce a farci morire il sorriso sulle labbra e a gelare il sangue, e quindi a riportare la dinamica del film negli equilibri del tragico. Il film si muove in una zona di confine col tragicomico, ma proprio il fatto di non sconfinarvi mai aumenta l’intensità del tragico: come certe movenze di Simone, il modo che ha di acciuffare il protagonista con una mano sola per costringerlo a salire in moto, il gesto di sbarbare una slot machine e portarla via dal bar, l’invasione in casa di Marcello per tirare cocaina nel suo bagno, mentre la figlia è nell’altra stanza.
L’equilibrio tragico del film si muove su un crinale instabile, rivela una faccia duplice: sì, perché la sventura capitata al giusto – giudichiamo pure così Marcello, perlomeno se confrontato con Simone – può indurre nello spettatore pathos ma anche distaccato cinismo, risata, humour nero. In quel caso è avvenuta un’identificazione subliminale col gigante cattivo, intuiamo che nel suo agitarsi esprime anche qualcosa di noi stessi, di molto sopito e dimenticato, ma comunque anche nostro. Questo non avviene mai del tutto: restiamo sospesi tra la pietà verso il toilettatore di cani, il suo portamento decoroso, e la paura verso il gigante smodato. In poche parole, la tensione di eleos e phobos è perfettamente espressa, e trova scioglimento in un finale sorprendente, la cui componente catartica è smorzata solo dal fatto che il corpo di Simone, a quel punto, pur essendo ormai spolia opima per il protagonista, non la smette di esercitare potere su di lui. La fisicità del gigante continua a dominare anche dopo essere stata annientata, ma ormai pone se stessa su un altro piano del discorso, è già metafora.
Seguendo Aristotele arriviamo in queste zone, cioè a considerare Dogman come la tragedia di un uomo che cade in disgrazia per errore. Perché “per errore”? Il maestro, parlando del pathos, si trova a fare delle distinzioni: non si tratta di un sentimento indotto dalla malvagità, dal vizio, altrimenti la dinamica narrativa sarebbe prevedibile (viziosi e malvagi vanno verso una cattiva sorte meritata…). Se il film si fosse sviluppato mostrando unicamente le pulsioni autodistruttive di Simone, non ci sarebbe stata alcuna tensione tragica, perché tutto sarebbe stato ovvio fin dall’inizio, prevedibile. Il pathos sarebbe venuto a mancare anche nel caso in cui Marcello fosse stato vittima sacrificale integrale di Simone, cioè nel caso in cui l’esercizio della violenza si fosse espresso senza zone d’ombra, sfumature: invece tra Simone e Marcello c’è un luogo di parola, dialogano, c’è interscambio. Ed è qui che si apre la possibilità dell’errore per Marcello, e l’errore consiste proprio nel fidarsi di Simone.
Certamente un errore al quale il protagonista viene condotto con la forza, sotto minaccia, ma anche un errore che provoca lo sviluppo di un legame percepito unilateralmente da Marcello: il dover cedere alle prepotenze del gigante innesca quello che è comunemente chiamato “rapporto vittima-carnefice”. A ogni confronto tra i due, c’è un breve spazio di tempo nel quale noi stessi siamo portati a sperare che Simone sia ragionevole, o meglio, che Marcello riesca finalmente a far valere il suo goffo e balbettato logos sulla brutalità di Simone. Razionalmente sappiamo che non avverrà, ma la potenza del film sta proprio nel farci sperare che ciò avvenga. È qui che si innesca il pathos, altrimenti avremmo per le mani semplicemente la storia di un bullo e di un bullizzato. La zona di complicità che si apre tra i due, invece, complica tutto. Sappiamo bene che, nel caso in cui Simone si riveli ragionevole, tutta la tensione tragica verrebbe meno, ma una parte di noi è portata a sperarlo. Veniamo spinti a opporci alla necessità, all’inevitabilità, e quanto più procediamo su questa linea, tanto più pathos accumuliamo.
Dopo averlo risucchiato in un rapporto di sudditanza, Simone provoca nella coscienza di Marcello anche un’altra spaccatura, portandolo a dover scegliere tra la comunità del quartiere, ostile al gigante, e il rapporto “malato” con lui. In più di un’occasione, Marcello avrebbe possibilità di vendicarsi, di incastrare il suo carnefice o di abbandonarlo al suo destino: invece si schiera con lui, gli copre addirittura le spalle durante una violentissima rissa. Elementi in cui possiamo forse leggere un desiderio di attingere a quella forza sovrumana, di partecipare della potenza del gigante. In un certo senso, Simone è ciò che Marcello non è e non sarà mai, cioè forte e temuto. È come se il protagonista, in certi frangenti del film, vivesse l’esclusività del suo rapporto col carnefice come una complicità, come se, attingendo alle stesse forze ctonie, potesse porsi anche lui contro la ragionevolezza meschina del quartiere, e spadroneggiare come il gigante. Infatti, bisogna notare come Simone, pur nella sua sgradevole pulsionalità, non agisca mai meschinamente, bensì brutalmente. Anche quest’aspetto ha il potere di gelare il sangue allo spettatore, di riportarlo all’ancestrale: da un lato il logos della comunità di quartiere, tattico e meschino (tendere un’imboscata al gigante, farlo fuori…), dall’altro la forza bruta del gigante, priva di premeditazione, che sbarba slot machines.
Ma non possiamo nemmeno ridurre il discorso a una formula, dicendo che Simone e Marcello sono due facce della stessa medaglia. Non è proprio così, e in questa impossibilità di dare una definizione univoca si innesta la particolarità metaforica del film, il rapporto uomo-cane, esemplificato dalla toilettatura iniziale, è qui che si fa sentire tutta l’insolubilità del nodo tragico: chi è il cane di chi? Marcello è il cane di Simone, dal momento che è costretto a sottostare ai suoi capricci, ai suoi bisogni? O Simone è il cane di Marcello, dal momento che per soddisfare i suoi bisogni, per rapinare o sniffare, ha bisogno se non altro di un appoggio da parte di Marcello? L’analogia tra i biscottini per cani e i pezzi di cocaina è fin troppo evidente in alcuni momenti del film.
Simone è un personaggio a dir poco straordinario. Non ha il minimo spessore psicologico, eppure risulta profondissimo. Questo perché è un personaggio dato unicamente dai suoi atti, non dai ragionamenti. Ciò che capiamo di lui è quanto possiamo raccogliere andandogli dietro, mentre sfascia, picchia, rapina. Ho detto che Simone, a differenza della comunità, non agisce mai meschinamente. Forse, l’unica scena in cui potremmo ravvisare un comportamento di questo tipo, si ha nel momento dell’abbraccio materno, ma non dobbiamo essere tratti in inganno: si tratta pur sempre di uno stratagemma che ha più dell’arcaico, del ferale, qualcosa che assomiglia più al gioco delle tre carte che al doppiogiochismo (non anticipo niente di più).
Il gigante non sopporta l’interdizione del suo desiderio, distrugge tutto ciò che si frappone tra lui e l’oggetto cui tende. È un campo gravitazionale che vuole piegare il mondo alle proprie leggi. Nel momento dell’abbraccio con la madre, questo stato di cose viene portato alla massima tensione: Simone è puro desiderio della cosa materna, desiderio che non ha mai avuto la mediazione della legge paterna – per dirla con Lacan. L’individuo, dopo aver perso la completezza originaria, data dall’identificarsi totalmente nella madre, inizia a sviluppare un sé riconoscendosi nello specchio, e non potrà più tornare a quell’unità. Cercherà dunque di sublimare la perdita attraverso il possesso di beni e l’uso di droga. Da questo punto di vista, la figura di Simone rappresenta un tratto umano almeno quanto quella di Marcello, solo che l’identificazione dello spettatore è portata a fraternizzare col patire di quest’ultimo, con la sua impotenza, mentre le necessità di Simone si situano in una zona più primitiva (ma non per questo estranea). Non è casuale che Marcello tenga in scacco Simone proprio servendosi di quell’elemento che – nella teoria di Lacan – dovrebbe surrogare la perdita dell’unità materna, ovvero attraverso la droga. L’unico modo per placare la furia del gigante è concedergli l’unione con questo piacere originario, e Marcello, molto avanti nel film, capirà come servirsi di quest’aspetto per acquistare un vantaggio sul suo carnefice.
Ma a quest’altezza del film, le carte in tavola sono cambiate, la Necessità di Marcello è cambiata: preso dentro al conflitto tra comunità e gigante, il protagonista deve riconquistarsi l’onore davanti agli abitanti del quartiere. Si configura il bisogno di recuperare la propria timé, come direbbero i greci, cosa che avviene non senza difficoltà e rischio di errore, e che non dà alcuna risposta certa sul futuro del protagonista, ormai definitivamente alla deriva.
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