In memoria di Nicolas Roeg.

Inghilterra, 16 ottobre 1973. Nelle sale cinematografiche escono, proiettati uno dopo l’altro, due dei massimi cult-movies britannici dei primi anni Settanta: il primo è The Wicker Man di Robin Hardy, film “folk-horror” par excellence, di cui abbiamo discusso altrove[1], il secondo è Don’t Look Now di Nicolas Roeg, tradotto in Italia con un titolo che ricalca le suggestioni pulp del novello filone spaghetti-thriller che vede in Dario Argento, Lucio Fulci ed Aldo Lado i suoi massimi interpreti: A Venezia… un dicembre rosso shocking.

 

La recente scomparsa di Nicolas Roeg, avvenuta lo scorso 23 novembre, ci fornisce l’occasione di ri-discutere la sua poetica cinematografica, che rifulge in film come Performance (1970, con Mick Jagger), Walkabout (1971, ispirato alla tradizione mitica degli aborigeni australiani[2]) e The Man Who Fell to Earth (1976, con David Bowie come protagonista). Ma è forse in Don’t Look Now che l’impianto narrativo e simbolico di Roeg appare più potente che mai: lungometraggio profondamente debitore dei gialli italiani di quegli anni, riesce nondimeno a distaccarsene in maniera personalissima, prediligendo l’aspetto drammatico a quello prettamente poliziesco e/o orrorifico.

 

Al centro della narrazione, ispirata a un racconto di Daphne Du Maurier[3], vi sono due coniugi inglesi, John (Donald Sutherland) e Laura (l’avvenente Julie Christie) Baxter, trasferiti a Venezia a pochi mesi di distanza dalla prematura morte della loro figlia minore, Christine, annegata tragicamente in un ruscello. I due si spostano nella Laguna perché John si deve occupare del restauro della chiesa di San Niccolò, in cui la presenza di inquietanti elementi gotici quali statue di mostri e gargoyles non faranno altro che farlo precipitare nell’angoscia più assoluta. Dal canto suo Laura, anch’essa caduta in depressione a causa del trauma, fa la conoscenza di due sorelle scozzesi di nome Wendy e Heather; quest’ultima è priva della vista ma dotata di poteri medianici, grazie ai quali Laura spera di potersi riconnettere all’anima di Christine. Ma quando la medium supplica Laura di avvisare il marito di lasciare Venezia al più presto, giacché una sventura incombente sembra aleggiare su di lui, quest’ultimo non dà peso alle parole della sensitiva, e sceglie di rimanere nella Laguna. Sarà invece Laura a tornare improvvisamente in Inghilterra, a causa di un incidente capitato al figlio maggiore. Nel frattempo, una serie ininterrotta di delitti inizia a macchiare Venezia di sangue.

 

Nicolas Roeg 1

 

Privato della compagnia della moglie, John prosegue la sua personale e inarrestabile descensus ad inferos. La mattina successiva alla partenza di Laura, durante un viaggio sul vaporetto, gli pare di scorgerla a bordo di una gondola in compagnia delle due temute sorelle scozzesi: preoccupato per lo stato mentale della moglie ed ipotizzando un eventuale rapimento ai suoi danni da parte delle due donne, John denuncia la scomparsa della moglie alla polizia, ma il commissario riverserà su di lui i sospetti per gli omicidi che stanno macchiando Venezia. Sogno e realtà sembrano mischiarsi senza possibilità di distinzione netta, e un destino fatale sembra gravare minacciosamente su di lui: durante un’operazione di restauro nella chiesa rischia di morire cadendo da un’impalcatura e, inoltre, vagando per i vicoli stretti e per i canali spettrali della città, più di una volta intravede una figura bassa, vestita con un impermeabile rosso, nascondersi o sfuggirgli dietro agli angoli: John non può evitare di collegare le apparizioni della misteriosa figura al fantasma della figlioletta prematuramente scomparsa.

 

Al di là dell’impeccabile prestazione di Donald Sutherland, protagonista assoluta di Dont Look Now è inevitabilmente Venezia. La città lagunare — con i suoi canali immobili e spettrali, l’atmosfera nebbiosa, i muri scrostati e ricoperti di manifesti strappati e sbiaditi, i vicoli arcuati e babelici — è perfetta non solo come cornice di questo thriller parapsicologico, ma anche come metafora stessa, luogo dell’anima dell’angoscia esistenziale che dimora nei recessi interiori dei coniugi Baxter, e che aleggia durante tutto il film, calando lo spettatore in uno stato di opprimente, spesso onirica, suspense. Per la scelta della location e per l’atmosfera decadente che viene qui ricreata da Roeg, Dont Look Now si può accostare a due film nostrani del genere giallo-thriller: Chi l’ha vista morire? (Aldo Lado, 1972) e Solamente Nero (Antonio Bido, 1978).

 

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Donald Sutherland su un canale veneziano

 

E proprio lo stato di totale irrealtà e insensatezza che opprime senza sosta la psiche dei due coniugi, e in particolar modo di John, potrebbe essere riconosciuto come il reale ‘assassino’ della ‘fiaba nera’ qui narrata da Roeg: un killer impalpabile che, una volta introdottosi nella mente ormai lacerata dei coniugi Baxter, li conduce a vedere ovunque fantasmi e premonizioni infauste, sino al tragico e fatale epilogo. Il villain del film quindi, pur apparendo nella ‘maschera’ di una nana deforme armata di coltellaccio e coperta da un impermeabile rosso, è a un livello più simbolico da leggersi nel ruolo distruttivo della silenziosa patologia che a poco a poco divora dall’interno il protagonista, apparendo simbolicamente nella forma di un grottesco ghigno deforme e insostenibile allo sguardo, a cui non può seguire altro che la morte. Si noti, a questo riguardo, come l’assassino non venga mai mostrato in azione, nell’atto di compiere gli efferati delitti: a Roeg interessa solo e unicamente mettere in scena lo stato mentale del protagonista, mediante un carosello nebuloso e sinistro di immagini suggestive, si potrebbe dire quasi archetipali (le statue e gli affreschi decadenti, i gargoyles, la labirintica e greve Venezia, ecc), per immergere lo spettatore nel suo strabordante flusso esistenziale, con annessi tutti i detriti che esso si trascina dietro.

 

Ed è qui che è possibile rilevare un interessante paradosso: il ruolo dell’immagine, così centrale nella poetica cinematografica di Nicolas Roeg[4], nella pellicola in questione è in qualche modo controbilanciato dalla scarsa importanza che, da un punto di vista psico-filosofico, le immagini rivestono in sé. In Don’t Look Now esse assurgono, infatti, al ruolo di meri simulacri, svuotati del significato che una solida (sebbene forse comunque ingannevole) realtà esteriore avrebbe potuto conferire loro in una situazione mentale diversa da quella, ormai totalmente alienata, del protagonista. In tal senso, la fotografia a cui John sta lavorando mentre la sua bambina muore tragicamente si macchia improvvisamente a causa di una misteriosa macchia di sangue; il ritratto fotografico di Laura che egli tiene, come un feticcio, nella tasca della giacca giace, alla fine del film, spiegazzato, facendo così apparire deturpato il suo sorriso. Inoltre, i ritratti (per di più approssimativi e poco più che abbozzati) delle sorelle scozzesi, che John vorrebbe servissero da identikit, vengono subito accantonati e ignorati dal commissario di polizia; e ancora, le statue a cui lavora John sono acefale e prive degli arti, e il lavoro in generale che il protagonista svolge, una volta giunto a Venezia, funge unicamente da sfondo e soprattutto da specchio della sua tormentata vicenda psico-patologica.

 

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Nicolas Roeg, Donald Sutherland e Julie Christie sul set di Don’t Look Now

 

John si presenta allo spettatore come un moderno Ulisse che vaga senza una patria, ricostruendo mosaici e riattaccando teste rovinate dall’usura del tempo a mostruose statue monche. Troppo occupato a calarsi nella realtà esterna e fittizia per rendersi conto che è proprio il suo personale mosaico che, una volta infranto in mille pezzi a causa dell’improvvisa tragedia, non riuscirà mai più a ricostruire; e che è la sua testa che non riuscirà mai più a ricongiungere al corpo. E non solo: estendendo la lettura a livelli più sovra-personali e storici, si potrebbe rilevare come John impersoni pure la condizione di alienazione post-traumatica dell’uomo contemporaneo — lettura che emerge più o meno velatamente anche in altri film del regista, fra cui quelli menzionati sopra —, il fallimento dell’uomo ‘occidentale’, illuso di condurre avanti (ma verso dove, poi?) un’esistenza che rimanga a tutti i costi nei binari dell’ ‘equilibrio psicologico’ e della “razionalità”, nonostante l’insostenibile realizzazione che un venir meno del senso grava costantemente sulla sua esistenza (trattasi infatti, a un livello collettivo, dello stesso trauma conseguente alla ‘scoperta’ della cosiddetta ‘morte di dio’ nietzschiana[5]). Sdoppiato fra la restaurazione di icone morte, nelle quali egli nemmeno crede più[6] e oscuri presagi sul futuro prossimo, smarrito tra i fantasmi del passato e le minacce che fatalmente incombono su di lui, è il presente quello che è stato in ultima analisi perduto.

 

Soltanto fuggevoli scorci di verità balenano ai suoi occhi, brevi illuminazioni: le apparizioni della enigmatica figura in impermeabile rosso, per esempio, o il ritrovamento della bambola nuda sul bordo di un canale solitario; o, ancora, il collegamento tra il cadavere ripescato in un canale opaco e melmoso e quello della sua stessa bambina, che lui stesso estrasse dal ruscello della sua villa in Inghilterra — rari e unici momenti nei quali John riconosce in pieno la tragicità della sua condizione. Tuttavia, sebbene morbosamente incuriosito da tali segni, alla fine tenta inutilmente e vilmente di allontanarli dalla sua mente, quasi a negar loro un senso oltre che un’esistenza. Diventa così inevitabile la dannazione finale: nell’istante in cui la verità gli si palesa nel suo vero orribile volto, John appare nudo di fronte alla sua tragedia e di fronte allo spettatore stesso, simile a una piccola statua piena di crepe e immobile nel suo grido di disperazione, come una di quelle a cui stava lavorando nella chiesa di San Niccolò.

 

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L’urlo disperato di Donald Sutherland

 

Da questa prospettiva, persino le scene di sesso presenti nella pellicola – pur risultando così passionali da far credere a molti ‘del settore’ che esistesse realmente un rapporto sentimentale tra Sutherland e la Christie al momento delle riprese del film – vengono svuotate dalla loro carica erotica mediante un abile montaggio supervisionato da Nicolas Roeg, che le spezzetta e le frappone alle riprese del momento in cui i due, ormai soddisfatti dal superficiale godimento di un amplesso puramente fisico, si rivestono e abbandonano l’albergo, per calarsi nuovamente nella propria condizione tragica e senza via d’uscita, perfettamente rappresentata da una rarefatta e labirintica Venezia calata nelle nebbie autunnali, e impreziosita ulteriormente dalla colonna sonora d’esordio di Pino Donaggio, che nei decenni a seguire si distinguerà come uno dei maestri assoluti nell’arte della composizione musicale cinematografica, per esempio nel sodalizio con Brian de Palma[7].

 

NOTE

[1] Cfr. M. Maculotti, Colonne sonore bellissime: The Wicker Man, su Noisey Italia, 2016.

[2] Come un altro grande film realizzato in quegli anni, The Last Wave di Peter Weir (1975).

[3] Daphne Du Maurier, dopo aver visto il film, scrisse una lettera di congratulazioni a Roeg.

[4] Lo spettatore non dimentichi che Nicolas Roeg, prima di intraprendere la carriera di regista, ha lavorato alla fotografia in numerosi film di rilievo del decennio ’60, come ad esempio The Masque of the Red Dead di Roger Corman (1964), ispirato all’omonimo racconto di E.A. Poe.

[5] A questo riguardo, non è privo di rilievo il fatto che Laura, in seguito al trauma della morte prematura della figlioletta, cerchi il sollievo nello spiritismo, esattamente come, storicamente, ha fatto l’“uomo occidentale” dopo l’avvento inarrestabile dello scientismo razionalista e del laicismo, fra XIX e XX secolo.

[6] Non risulta che i coniugi Baxter siano cristiani.

[7] Cfr. M. Maculotti, Brian de Palma: ossessioni, doppelganger, meta-realtà, su Il Cartello.

 

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