Ricordiamo i Sixties per i capolavori di Beatles e Beach Boys. Ma ci sono altre pietre miliari che meritano il giusto riconoscimento.

I Sixties sono stati anni ricchi di profonde rivoluzioni artistiche e, di conseguenza, culturali. Protagonista indiscussa del cambiamento è stata la musica che, oltre ad aver incanalato in direzioni estremamente innovative i nuovi canoni stilistici della cultura pop di allora, è stata lo specchio di un’intera generazione, una componente fortemente identitaria di quegli stravolgimenti. Pietre miliari della psichedelia pop hanno trovato terreno fertile in questi anni: si pensi che solo tra il ’66 e il ’67 vedono la luce opere mastodontiche del calibro di Pet Sounds dei Beach Boys, Sgt. Pepper’s and The Lonely Heart’s Club Band dei Beatles e The Piper At The Gates of Dawn dei Pink Floyd. In una produzione così florida e variegata, spesso il successo dei più noti ha fatto passare in sordina album di ottima fattura. In questa classifica cerchiamo di ripercorrere alcuni dei più significativi capolavori “perduti” di quegli anni.

 

10) Nazz – Nazz (1968)

L’omonimo disco di debutto dei Nazz è un chiaro esempio del tentativo di americanizzazione del nascente sound psichedelico, complice l’influenza della British Invasion. Pubblicato nel 1968, pone le fondamenta per quel power-pop anglofilo di molte rock band americane degli anni ’70. L’ascolto affascina per la varietà stilistica ed è degna di nota la capacità del gruppo di intrecciare sperimentazioni personali alle proprie influenze musicali, richiamando in molti momenti i Cream e Jimi Hendrix. A spiccare è soprattutto la chitarra di un giovane Todd Rundgren in Open My Eyes, di cui, ad un ascolto attento, non è difficile notarne il richiamo in quella di Kevin Parker/Tame Impala in Lonerism.

 

 

9) The Monks – Black Monk Time (1966)

Si potrebbero definire i The Monks come la rock band più selvaggia e visionaria di quegli anni. La loro storia parla già chiaro: cinque soldati americani di stanza in Germania formarono una band come gesto simbolico di ribellione estrema rinnegando i propri gradi. Black Monk Time, il loro primo e unico album in studio, è il testamento di un gruppo di musicisti che crea inavvertitamente una nuova forma di rock and roll, slegata da tutto ciò che la scena contemporanea potesse offrire all’epoca. La furia dissacrante della band, riflessa nelle loro nere uniformi, è sempre esplicita e sagace nella violenza di versi come “Why do you kill all those kids over there in Vietnam?”o “I hate you with a passion, baby”.

 

 

8) Kim Fowley – Outrageous (1968)

Dotato di una personalità eccentrica quanto inquieta, Kim Vincent Fowley con il suo Outrageous dimostra un talento musicale fuori dal comune riuscendo, nel contempo, a dissacrare gli stereotipi della propria generazione sfiorando la parodia. Da Animal Man in cui prende di mira la scena acid-rock di San Francisco, si arriva a Barefoot Country, un insolito connubio di suoni cacofonici (compresi rutti e scatarrate varie) a ritmiche rockabilly degne di un Chuck Berry.

 

 

7) Moby Grape – Moby Grape (1967)

Sebbene sia stato offuscato dai successi di band come Jefferson Airplane e The Grateful Dead, uno dei migliori prodotti venuti fuori dalla scena psichedelica di San Francisco per arrangiamenti e stile è sicuramente l’omonimo disco di debutto dei Moby Grape. È una ventata di freschezza per stile e arrangiamenti che distaccandosi dai clichè dei trip sonori più acidi propri dei loro colleghi contemporanei, si caratterizza per il lavoro chitarristico di Jerry Miller, Peter Lewis e Skip Pence, le cui armonie sguazzano nella psichedelia senza mai annegarci. La straordinarietà del disco sta nella capacità di risuonare ancora profondamente attuale.

 

 

6) The Zombies – Odessey and Oracle (1968)

Vero e proprio tesoro degli anni sessanta, Odessey and Oracle degli Zombies è un’opera a cui la categorizzazione in semplice psych-pop risulta stretta nonostante l’estetica abbastanza esplicita della sua cover. Idealizzato tra le file dell’indie più moderno, la complessità degli arrangiamenti e delle armonie (paragonabili a Village Green Preservation Society dei Kinks) eleva il disco tra i traguardi artistici più importanti del suo decennio. Tuttavia possiede anche l’infelice ruolo di capitolo finale di una band la cui carriera è stata fin troppo breve.

 

 

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