Scary Tales è una raccolta di racconti su esseri umani aberranti, che compiono gesti estremi dettati dalle paure insite nella mente umana.

La sola differenza che c’è tra schiavo e animale
è che gli animali obbediscono non indotti dalla ragione,
ma dalle percosse;
tuttavia l’utilità che si ricava sia dagli uni che dagli altri è poco diversa,
perché tanto gli schiavi quanto gli animali domestici
ci aiutano col corpo a soddisfare i nostri bisogni.
[Aristotele]

Volete che spieghi perché ho paura del bianco? Perché mi ritraggo quando vedo il lucido sulle mattonelle che rifrange l’aria di una strana luce artificiale…? E perché l’aria fredda mi fa l’effetto di un pugnale nel costato?
C’è chi crede che la mia paura sia una peculiarità individuale, innata, intrinseca nella mia mente, che tende a manifestarsi nel corpo fin da subito, prima con dei segni minimi, poi sempre più grandi, come i cerchi disegnati da un sasso scivolato in uno stagno.
C’è, invece, chi obietta, e giustifica le circostanze (come la mia) come prodotto dell’esperienza, come un’allergia che scoppia all’improvviso e non ti lascia tempo per curarti, ti stringe la gola, ti gonfia la lingua. Se ti salvi, puoi solo ricordare… E avere paura.
E’ sbagliato credere che la paura si manifesti solo nel buio o nella solitudine.
Io l’ho trovata nello sguardo di chi è sopravvissuto a tanti orrori. Io, io l’ho vista nelle prove mancate della morte.
Fu questo il ricordo della prima Persona Schifosa, la paura. Un tipo di paura che non è necessariamente legato a qualcosa in particolare, ma fu in grado lo stesso di risvegliare tutte le reazioni proprie del terrore: come tanti risultati per un’unica operazione.
La paura che provai non ha riferimenti, non si identifica nei fatti, cade quasi nella superstizione.
Si ritrova nelle copie, nei modelli esemplari i cui archetipi sono in noi e sono eterni.
Come potrebbe altrimenti impressionarci, per esempio, il racconto di fatti che, in perfetta coscienza, riconosciamo come falsi o non concretamente tangibili?
Forse che siamo in grado di percepire direttamente il pericolo delle paure, e temiamo che esse facciano del male al nostro corpo? Niente affatto!
Questi terrori (come i miei) sono di più antica origine, risalgono oltre il corpo e senza il corpo sarebbero esistiti ugualmente…
Che il genere di paura trattato sia puramente spirituale; che sia, in proporzione, tanto più forte quanto senza oggetto apparente sulla terra e che predomini nel periodo dell’infanzia innocente, sono problemi la cui soluzione consentirebbe maggior comprensione della nostra esistenza anzi-mondana, e ci permetterebbe di gettare almeno uno sguardo nell’oscuro regno della pre-esistenza e nei figli della stessa esistenza.
E come la paura abbocca all’esperienza tanto da non volersi slamare?
E quale esperienza può cambiarti fino a volerti disfare dei ricordi?
E ti piega, ti strozza, inginocchia la tua razionalità, spezzandogli le vertebre.
E, come un verme, ti nascondi, pur sapendo che non puoi, perché nessuno può nascondersi dalla propria mente. Nessuno può nascondersi da ciò che non si vede.

Erano le 18.00 quando il taxista mi cacciò fuori dal suo veicolo e scappò. Vidi i suoi capelli drizzarsi e poi appiattirsi sulla nuca a causa del vento, come se non ci fossero i finestrini. Fuggì, come se avesse indossato la macchina e sperai che non fosse la prima volta.
Non cercai motivazioni, ma non potei fare a meno di sentirlo sbandare da un lato all’altro della strada, indirizzato dalle fratture e i dossi che coloravano una banchina difesa da alberi enormi. Questi coprivano il cielo lasciando che la luce soffocasse sul primo strato di foglie che, bruciando, arrostivano l’aria.
Il taxista si portò via i miei soldi e insieme anche le ultime luci del giorno che riflessero per un attimo nel finestrino posteriore, poi si spensero nel giallo ocra del suo veicolo, amalgamandosi.
Quel giallo artificiale si portò via lo spettro del tramonto, lo sostituì con una nube di fumo nero che inscenò l’arrivo della notte. “Fu l’ultima volta che vidi il sole”.
Ero stato chiamato da un dottore, molto importante, mi dissero, per parlare.
Semplicemente parlare. Sì, fu strano anche per me, ed è per questo che accettai.
Non sapevo che quell’incontro, la sua presenza e il nostro dialogo avrebbero cambiato le sorti della mia spoglia vita.
Ma sentite… come.
Dopo che i lampioni si decisero a stilizzare i fiochi dintorni paesaggistici, riuscii poco a poco a orientarmi.
No, non c’ero mai stato. Avevo avuto l’impressione di un posto già vissuto, forse nell’infanzia, ma, decisamente, c’era stata un’associazione sbagliata.
Camminai lungo la strada, priva di barriere, e una paura indefinita mi attanagliò le caviglie che si divincolarono, trasformando il passo in una specie di corsetta tarantolata.
Arrivai di fronte la casa del dott. Spinoza. Non ho ricordi, nemmeno generici, di ciò che c’era intorno.
Evitai di fare attenzione come uno che ha già deciso di non tornare più. Quel posto…
Il cancello si innalzava di fronte al giardino, folto di bellissime conifere.
Lo attraversai e mi sentii appesantito. Sembrava che tutta l’aria del cielo fosse crollata in basso e l’assenza di vento ristagnava e bolliva l’ambiente come acqua putrida di palude.
Nel tentativo non ragionato di reagire, avvicinai la manica della giacca su misura alla bocca, come per filtrare le scorie maleodoranti nei tessuti di lana.
Funzionò per qualche manciata di secondi, poi anche i miei vestiti si impregnarono di quell’odore, e così andai in apnea.
“Non resisterai a lungo” mi disse una voce.
Mi voltai, spaurito. Rotolai e mi acquattai, schiacciato a terra dalla stessa aria pesa colpevole di avermi fatto dimenticare il taxi, i soldi, il dottore e il motivo per cui fossi lì.
Nel tentativo di rialzarmi e combattere contro la voce, i miei occhi sgranati scorsero un’ombra saliente, una sagoma, confusa forse dalla lunga apnea o forse dalla mancanza di una dannata luce.
Mi trasse in salvo e bisbigliò: “Ora è al sicuro…”.
Accadde in un attimo. Non riuscivo a ricordare nulla di simile che mi fosse successo o che avessi letto, nemmeno nella mia immaginazione avrei potuto ricollegare o mettere insieme le bislaccherie strampalate, renderle ragionevoli, per poi raccontarle.
Ma non avrei dovuto raccontarle.
Se dicessi di aver vissuto un sogno sarebbe banale, perciò lo ammetto: “Pareva di aver toccato l’inconscio più del tempo necessario alla coscienza per realizzarlo. Poi rimanervi, senza poter tornare indietro.”
Tutta la memoria era frammentaria, e quel crepitio tra i ricordi si accingeva a cambiare ogni volta che provavo a ricordare.
Quegli orrori! Oddio, quegli orrori li sentivo scricchiolare nella penna sputainchiostro e nel letto bianco di fogli con cui mi confrontavo. Quei dannati mi perseguitavano come un peccatore Dantesco, anche in quel presente, passato a raccontare l’accaduto per liberarmi anche della parte più ‘pulviscolare’ e respirare, di nuovo.
Decisi di non soffermarmi sui particolari.
Avevo visto la casa da fuori e lasciatemi dire brevemente: l’edificio balenava di arenaria e, sebbene avessi perso la cognizione del tempo, lo catalogai del secolo scorso.
Era abbellito da opere di legno e marmo il cui splendore, pur offuscato nel tempo, indicava un ottimo gusto e un passato barocco.
Non si riconosceva in nessuna particolare corrente artistica e non sembrava coincidere con la stessa architettura interna.
A prima vista l’esterno era decrepito, crollato, trascurato e decorato dagli agenti atmosferici, mentre l’interno era un colpo. C’era uno stacco così forte che dava l’idea di aver cambiato casa e anche quartiere. Se da fuori aleggiava il sentore di umidità e muffa cacciata dalle feritoie sgretolate dalle erbacce, dentro c’era il calore del capitale umano.
L’interno aveva una maligna quiescenza di fiato tolto (breathless) per lo stupore e il candore con cui gli occhi venivano accompagnati dalla luce. Fuori, fuori c’era il fiato spezzato, il fiato eruttato senza volontà, il fiato espulso insieme alla saliva nel tentativo di scappare e permettere al corpo di correre il più velocemente possibile. Fuori si annullava il concetto di emozione per interpretazione o valutazione determinata dal contesto. Fuori si aveva paura.
Lasciatemi scrivere, vi prego.
Sento le dita sbriciolarsi nel tentativo di provare a correggere quello che avevo già scritto. Cerco di migliorare. E nel sostituire le parole rivivo i significati delle nuove.
Così accelero, ma tendo a dilungarmi. Allora riposo, rabbrividisco.