Un sogno psichedelico di amore e vita a base di funghi allucinogeni in una New York delirante.

Venerdì sera. Non vedo l’ora di annegare la mia anima stressata dal lavoro nei bagordi del weekend. I miei amici hanno deciso all’ultimo di andare fuori città e l’unica alternativa rimasta è uscire con una mia ex-compagna di studi, anch’essa a New York per un po’ di tempo. Quando arrivo fuori dal locale dove abbiamo fissato, della mia amica non c’è traccia. Guardo le facce in fila e, nonostante la mia buona volontà, non me la sento di diventare parte di quell’insalata di apparenza e musica commerciale. O perlomeno non me la sento di diventarne parte da sobrio. Ripiego così sul bar-sport accanto al club, siedo al bancone e ordino un whisky e coca.

 

L’ultimo match degli Yankees è proiettato sul maxi-schermo mentre intorno a me altri avventori consumano interminabili serie di Jager bombs pre-serata. Mi lascio catturare dal baseball, entro nello schermo e creo una bolla con l’esterno. Sono sottovuoto. Ordino un altro whisky e coca, mentre la mia appena scoperta passione per mazza e guantoni si va consolidando. Con il terzo drink la voglia di entrare in quel locale per “gente per bene” sparisce. Decido così di rimandare la festa al giorno dopo.

 

Mentre attendo la metro stanco e pervaso da un senso di malinconia per il rammarico di non aver fatto niente di speciale uno degli ultimi venerdì del mio soggiorno newyorkese, una voce femminile rompe il silenzio, dicendomi: “Belle scarpe!”. Mi giro, una ragazza si era seduta accanto a me senza che me ne accorgessi. “Anche tu torni a casa presto oggi?”, le domando. “Beh sì, sono troppo sbronza, non riesco più a stare in mezzo alla gente. Posso toccare le tue scarpe?”. “Certo fai pure, made in Italy baby”. Poi mi dice: “Perché non dividiamo un taxi? Questa cazzo di metro non passa mai”.

 

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Made in Italy baby

 

Due minuti dopo siamo in strada. Diana, così si chiama la ragazza, è originaria del Vietnam ma nata in California perché i suoi genitori abbandonarono l’inferno di napalm e carestie generati dalla guerra. Porta una gonna bianca di un tessuto felpato e un top nero elasticizzato; sul suo volto un make-up pesante che continua a sciuparsi per le lacrime che ogni tanto le cadono spontaneamente dagli occhi – “sai, quando sono sbronza piango senza accorgermene”, mi aveva confessato qualche minuto prima che notassi una lacrima.

 

Il traffico della notte di Manhattan si è inghiottito il taxi che abbiamo chiamato. Spazientiti, saltiamo a bordo di un’altra vettura appena liberatasi, e in men che non si dica siamo in cammino verso casa di Diana. Sulla via ci scambiamo pezzi delle nostre vite, io mi sento come Arturo Bandini in Chiedi alla polvere, lei è Alice sbronza nel Paese delle Meraviglie. Mentre l’autista sfreccia verso la destinazione, si mette comoda distesa su di me facendomi eccitare. La libido svanisce contestualmente al suo avvisarmi che il suo Airbnb non permette stay over.

 

Seduti sulle scalette del suo portone, fumiamo una sigaretta contemplando la luna. Diana getta via la sua cicca, mi da un bacio sulle labbra e sbiascica un: “Ti scrivo domani”.

 

Apro un occhio svegliato dalla metro che passa troppo vicino alla mia finestra e, quando riesco ad aprire anche il secondo, mi avvio frastornato al wash and dry per lavare mutande e calzini. Mentre fisso distrattamente la biancheria girare nella lavatrice, il telefono vibra e un “Hey sono Diana, come stai?” mi coglie di sorpresa.

 

Andiamo prima a un museo e poi a un party pomeridiano dove, mentre balliamo sotto la consolle, Diana mi fa presente che ha dei funghi allucinogeni. La proposta cattura la mia attenzione, così rilancio dicendo che ho i biglietti per un altro party. Continuiamo a ballare tra l’euforia generale e dei palloncini colorati che svolazzano in cielo fino a quando il dj carica l’ultimo disco e se ne va, seguito dal suo team di trombettisti che gli vanno dietro come se fosse il Pifferaio Magico.

 

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Il party pomeridiano dove Diana mi fa presente che ha dei funghi allucinogeni

 

Anche noi ce ne andiamo con loro e ci dirigiamo verso casa mia. Chiamiamo il delivery boy per farci portare dell’erba e ci sediamo sul letto a fumare una sigaretta. A metà sigaretta Diana mi sta facendo un pompino e dopo poco consumiamo la scopata che era nell’aria dalla sera precedente. A menti più rilassate, siamo pronti per la serata. Arriva lo spacciatore e ci arrampichiamo sul tetto a fumare. New York è una costellazione di luci da lassù. Mentre bruciamo alcune cime, il pusher ci rivela che soffre di improvvisi attacchi di epilessia che lo hanno costretto a sospendere il corso di laurea in ingegneria aerospaziale – e iniziare a smerciare ganja in attesa che questi passino. Realizzo che se dovesse avere un attacco, non saprei davvero come calarlo giù per la ripida scala che conduce al tetto. In ogni caso è troppo tardi per preoccuparsi, così continuo a fumare dalla sua pipa mentre il mio cervello si fa più leggero.

 

Diana fa sparire le mie preoccupazioni quando tira fuori la busta contente i funghi allucinogeni. “Uno a te, uno a me”, dico io mentre ripeto l’operazione svariate volte cercando di non pensare al sapore di terra e morte che mi riempie la bocca. Chiamiamo Uber, il taxi arriva, e ci saltiamo a bordo.

 

Arriviamo nella warehouse che ospita la festa. Come gocce che anticipano un acquazzone, i funghi allucinogeni danno le prime avvisaglie. Suggerisco allora di andare al piano di sopra a fumare una canna.

 

Il cambio di musica, il cambio di luce, i preservativi decorativi sul soffitto illuminati dalla strobosfera al centro della sala, il banco dei frullati (c’era davvero un banco dei frullati?), formano un cocktail esplosivo che ci fa scoppiare in una serie di fragorose risate. I funghi allucinogeni sono ufficialmente entrati in azione. Ci dirigiamo verso la sala fumatori. Parliamo con tutti, parliamo tra di noi e sprofondiamo in quelli che sembrano lunghissimi silenzi – smentiti ogni volta dall’orologio. Voliamo in un sogno psichedelico in cui la stanza si deforma oniricamente ogni volta che guardo qualcosa con più attenzione. C’è una donna intenta a spacciare seduta davanti a me che si trasforma prima in un uomo e poi in una drag queen. Le luci cambiano di nuovo, vorremmo andare a ballare ma siamo due zavorre. E poi ancora silenzi, risate, giochi di luce, silenzi, pianti, risate. Non ne possiamo più, dobbiamo rompere quella prigione di cristallo e andarcene in un luogo più tranquillo. Chiamiamo Uber. La macchina ci attende fuori. Entriamo cauti e rimaniamo silenziosi fino a quando la comodità dei sedili rapisce la nostra attenzione. La macchina si fa più grande, percepisco Diana lontana mentre un senso di piacere mi pervade dall’interno. Solo dopo un po’ ci accorgiamo che stiamo urlando senza regole, raccontandoci storie e apprezzando la comodità della macchina. Quando confessiamo ridendo che siamo strafatti di funghi allucinogeni, il simpatico autista ci risponde di non preoccuparsi.

 

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I funghi allucinogeni sono ufficialmente entrati in azione

 

Arriviamo. Ci accampiamo sul pianerottolo pattuendo saggiamente di non andare sul tetto: “It’s important to stay grounded”. Dieci minuti dopo siamo a fumare ganja sul tetto. New York è un sogno color pastello, l’alba arancione si sta tuffando nella notte scacciandola mentre una canzone di Edith Piaf esce dalla finestra di un edificio. Qualche altra canna, mentre voliamo tra le nuvole. Anatre, forme geometriche, mia madre mi sorride e poi lo fa anche la Statua della Libertà. Dio benedica i funghi allucinogeni.

 

Scendiamo. Ci appoggiamo sul letto un secondo. Schiaccio play e la chitarra di Jimi Hendrix stride dalle casse del mio computer fino a quando mi addormento per qualche minuto.

 

Quando apro gli occhi Diana si è dissolta come una delle tante allucinazioni della serata.

 

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Diana si è dissolta come una delle tante visioni provocate dai funghi allucinogeni