Ecco la nostra settima menzione d'onore, L'Asfalto è sempre uguale, il cielo sempre diverso di Simone Napoli, un racconto toccante tra ricerca esistenziale e solitudine.

Era già uscito da un’oretta, o giù di lì, lasciando suo padre a gridare davanti al PC, anche se in realtà erano rivolte a lui, le grida, ma non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo e sbraitava al computer che le 10:30 non era orario per uscire. A tredici anni, Antonio lo ascoltava a testa bassa e sarebbe restato in casa, ma ormai ci aveva fatto il callo, quindi uscì comunque, con sua madre che, come ogni volta, afferrava il suo violino e suonava, un po’ per coprire le urla, ormai immotivate, un po’ per scoprire l’anima dalla tristezza. Ad Antonio non era mai sembrata soluzione migliore quella, ma se riusciva a fare altro, meglio di perdere la vista davanti al PC.

 

Da quando era uscito, il cielo era sempre stato coperto da un fitto strato di nebbia, ecco perché c’erano sulle due, tre dozzine di anime e qualche cane, in quel sabato di dicembre, quando il freddo diventa come un fratello maggiore che ti fa i dispetti e non vuole smettere. Quindi Giovanni e Ciccio avevano deciso di fare un pit-stop. La meta era sempre la stessa: i gradini della scuola elementare, e il freddo c’era anche lì, ma non c’era nessun altro meno che loro. Per far cosa? Quello che si fa quando si ha tempo da perdere, o meglio da buttare. E di tempo Antonio ne aveva a vagonate. Era uno che viveva perché gli sembrava scorretto non farlo, in perenne attesa e riflessione. Niente che lo agitava e niente motivazioni. Il suo problema, però, non era certo il modo in cui viveva la sua vita, piuttosto la vita che gli era spettata. Non che non la apprezzasse, in fondo basta alzare lo sguardo, a volte, per apprezzarla. E Antonio lo faceva, anche spesso: che ci fosse una valle di nuvole o il sole in mezzo agli occhi, non mancava di guardare il cielo, l’infinito. Anzi! Il problema era che gli altri non lo facevano abbastanza, era la vita degli altri il problema, non la sua.

 

E questo, in una città di trentamila persone, voleva dire entrare nei suoi ingranaggi e rimanerci incastrati. Le eccezioni sopportavano il proprio destino con le stesse noie di Antonio e – per facilitarsi il compito – un paio di canne non guastano, sognando l’università per emigrare. La noia non è mai facile da combattere: c’è chi legge, altri fanno sport e altri ancora mangiano; anche tutt’e tre le cose, a volte, non bastavano a contrastare il tedio e il ciclico ripetersi degli eventi. Ma alla fine, Antonio sapeva che anche il fumare era monotono: si girava dentro la macchina di Giovanni, primo patentato della comitiva; andavano a sedere dietro al muretto, “Così non ci vedono” non mancava di ricordare Ciccio; fumavano bisbigliando e si tiravano fuori i ricordi di un’infanzia trascorsa in quella scuola, come vecchietti che giocano a briscola, anche se avevano diciott’anni a stento. Niente di troppo divertente, in fondo.

 

Tutto questo, però, non usciva mai dalla mente di Antonio. Sembrava sempre sereno, il tipico ragazzo spensierato e senza futuro. Sembrava. In effetti non considerava troppo il suo futuro, semplicemente perché non ne vedeva uno, e questo lo rendeva tutto meno che spensierato. In realtà era una pentola a pressione, e ogni pensiero una bollicina che avrebbe potuto far saltare il coperchio. E di bollicine ce n’erano tante, ma almeno si credeva una pentola abbastanza capiente, poteva ancora tenere saldo il coperchio, senza esplodere. Non sapeva per quanto tempo ci sarebbe riuscito, ma quello era un problema per il futuro e quindi non lo vedeva. Ciccio e Giovanni, invece, erano più pratici, già proiettati alla ricerca del futuro, cercando di ammucchiare più esperienza che potevano. E Antonio, che non era mai stato bravo a cercare e inseguire niente, si limitava ad attenderlo, il futuro. In fondo non è che puoi rincorrerlo, è dannatamente veloce! Si fa prima ad aspettarlo in molti casi. C’è da dire che era bravo ad aspettare. La sua pazienza non aveva ancora visto un limite; d’altronde, si era sempre circondato di persone, poche, che non avevano mai stuzzicato la sua pazienza, con le altre persone che non puoi evitare – quali professori, compagni melensi e suo padre – cercava di passare oltre, ignorandoli, a volte con fatica, ma sempre con successo, per il resto amava stare solo, quindi gli veniva facile non perdere la pazienza.

 

E questo era quello che tutti gli altri non capivano, ci pensava spesso, Antonio, come si fa a stare con gli altri se non si sa stare soli? Vedeva i suoi coetanei professarsi eremiti, ma non credeva che postarlo su Facebook li rendesse tali. La cosa assurda, che non riusciva a concepire, era che quei finti eremiti ci riuscivano! Erano sempre circondati di persone, con cui parlavano e scherzavano come fratelli. Avevano quello che a lui mancava: intimità; qualunque cosa volesse dire.

 

In fondo aveva degli amici anche lui, eccezioni in quel mare, anzi acquario, di pesci uguali; ma non sapeva fino a che punto si potessero definire intime quelle relazioni. In realtà non sapeva affatto cosa fosse l’intimità. Confidarsi a cuore aperto con qualcuno? Era forse avere una fidanzata? Era l’amore che dava intimità? Ma anche in questi casi preferiva pensare per i fatti suoi, senza riuscire a immedesimarsi coi pensieri degli altri. Era questo il punto: i suoi pensieri erano soltanto suoi, e non riusciva a trovare qualcuno con cui condividerli nella loro interezza. Trovare qualcuno con questo dono pareva impossibile. Ecco perché aspettava anche questo, mentre i suoi pensieri si evolvevano e raggiungevano ogni briciolo della sua esistenza.

 

Col finire della canna, Ciccio disse che era meglio andare, le ragazze li stavano aspettando. Antonio non si chiese “quali ragazze?”, si alzò insieme agli altri e scese verso il centro. Contro ogni pronostico, la piazza si era un po’ riempita, ed era un mezzo miracolo visto il freddo. Le ragazze erano le loro compagne di classe, che li accolsero con abbracci sbronzi e affettuosi, cui Antonio non fece troppo caso. Notò, invece, che oltre alle tre compagne mezze brille, c’era anche una quarta ragazza che non aveva mai visto, e che si stava giusto presentando. Si chiamava Laura, aveva capelli neri e lisci, visibilmente tinti, pensò Antonio, visti gli occhi azzurri e le lentiggini che le macchiavano il viso. Seduti al tavolo, gli altri, storditi dall’erba, parlavano con la nuova conoscenza, tartassandola di domande, e quando arrivò da bere, Antonio prese la sua birra e uscì a fumare una sigaretta.

 

Sembrava la sera dei miracoli: la nebbia si era diradata, lasciando il cielo sgombro dalle nuvole, ma non dal vento. Boccheggiò prima con la sigaretta e poi dal bicchiere, in mezzo a tutti i suoi clienti.

«Va tutto bene?» si sentì chiedere. Alzò lo sguardo e notò che anche Laura aveva bisogno di nicotina, e forse anche di una pausa dall’interrogatorio.

«Si, certo» rispose, tra un tiro e l’altro «perché?»

«Hai una faccia…!» incalzò lei.

«Che faccia?» chiese, sforzandosi di sorridere.

«La stessa che ho io quando torno a Palermo» rispose e tirò anche lei dalla sigaretta «problemi a casa?»

«Se vuoi chiamarli così» disse, spiazzato dalla sua chiaroveggenza «tu invece che problemi hai a Palermo?».

Lei ridacchiò, prima di bere un sorso dal suo cocktail «Troppa gente, tanto per cominciare, non puoi fare un giro senza fermarti a fare chiacchiere inutili con mille conoscenti che vogliono rimorchiarti»

«Qui non è lo stesso?» chiese, alludendo a Ciccio e Giovanni.

«I primi mesi era anche peggio! Ma poi, dopo che tutti ti conoscono di vista, passi inosservata, in un posto come questo».

Non era una riflessione sbagliata, pensò Antonio «Ma qui c’è freddo, e sono tutti uguali»

«È vero!» disse lei «ma ti assicuro che anche a Palermo la gente è tutta uguale, e poi» continuò alzando lo sguardo «la nebbia se n’è andata? Così si vede il cielo e le stelle, a Palermo non abbiamo né la nebbia né le stelle». Anche questa era un’osservazione corretta, a pensarci. Bevve un sorso e non disse niente.

 

Lei non era intimorita dal silenzio, anzi era abbastanza logorroica, cosa che, quando la logorrea non era dare aria alla bocca, non dispiaceva ad Antonio. «In fondo» proseguì lei «dove vai vai l’asfalto è sempre uguale, è il cielo a essere diverso. Meglio essere come il cielo che come l’asfalto, no?».

 

Antonio fu investito da quelle parole, si sentì un bambino, così tirò nervoso dalla sigaretta e le sorrise, palesemente in imbarazzo. Lei ricambiò il sorriso, dolce e sicura. Quando buttò la sigaretta, strappò dalle mani il cellulare ad Antonio «Questo è il mio numero» disse digitando i tasti invisibili «mi piacciono le persone loquaci come te» scherzò. Antonio divenne rosso e le fece uno squillo per contraccambiare il numero. Poi rientrarono, anche se per poco, dato che era quasi l’una e suo padre aveva già chiamato tre volte. Imbarazzante e insopportabile. Salutò e si avviò verso casa.

 

Davanti casa, sentiva già il violino di sua madre, che continuava a suonare tristezza su quella notte serena, e quando chiuse la porta del soggiorno, il violino si ammutolì e suo padre lo accolse tra grida e puzza d’alcool. Si era staccato dal pc, almeno, e lo aspettava davanti alla tv. Gli urlò contro per un po’, accusandolo di essere un drogato e un figlio degenere, ma lui non gli badava più di tanto, guardandolo con occhi apatici e stanchi. La vena del collo di suo padre si ingrossò per il nervosismo, strinse il pugno sinistro e col destro schiantò un ceffone nel viso di Antonio, continuando a blaterare e il violino tornò a suonare. Antonio restò fermo. Per quanto fosse opprimente, suo padre non lo aveva mai colpito, in nessun modo. Sentiva dentro la rabbia montare e ingrandirsi come lievito, ma, dato che quella notte voleva essere come il cielo, fece un profondo respiro.

 

«Sono indeciso su cosa fare» disse, con suo padre che gli respirava sul naso «potrei far finta di niente e andare a letto, oppure andarmene e basta». Una seconda sberla arrivò nella stessa guancia. «Mi hai tolto ogni dubbio» incalzò infine, e sfrecciò fuori come era uscito qualche ora prima, con le urla di suo padre e la melodia di sua madre.

 

Inviò un messaggio a Laura: – Ciao, sei ancora in giro? –

Lei rispose che stava per tornare a casa. – A me servirebbe un posto dove dormire, so che è assurdo e imbarazzante ma non so a chi chiedere – continuò.

Quando lesse nello schermo – Torna qui e basta – alzò gli occhi al cielo, con il violino che risuonava tra le stelle. Povera mamma, pensò, ma avrebbe risolto l’indomani, in futuro, quel futuro che non vedeva e non gli interessava. Il cielo cambia ogni giorno, in fondo, e quella notte era così calmo, perché agitarsi?

 

Parole di

Simone Napoli

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