Ancora una volta Roger Federer contro Nadal, e la Potenza resa vulnerabile dalla Bellezza.

Sotto il cielo stellato di Melbourne – lo stesso cielo che forse alla vigilia avrebbe preferito non vedere – Roger Federer  conquista il suo 18° titolo Slam all’esito di un match per lunghi tratti dominato, prolungato fino al quinto set dai soliti passaggi a vuoto dello svizzero, e da quei fantasmi del passato che ancora ritornano. Ha vinto contro la sua nemesi, al secolo Rafael Nadal, mancino spagnolo di Manacor, che tante (troppe) volte, lo aveva sconfitto in finale.

 

In un colpo solo, Roger si prende tre enormi rivincite. Nei confronti di Nadal, che qui lo aveva battuto nel 2009, quando si consumò uno dei maggiori psicodrammi federeriani; nei confronti di chi sosteneva che il Major vinto a Wimbledon nel 2012 sarebbe stato anche l’ultimo, ché troppo vecchio e logoro appariva ormai il Re, quasi brutalizzato dal tennis millimetrico di Novak Djokovic nelle ultime tre finali Slam disputate, tutte perse; nei confronti, infine, dell’ Hawk-Eye che tante delusioni gli aveva riservato in passato. L’ultima parola di questa finale, che rischiava di trasformarsi in un altro capitolo del romanzo svizzero dei rimpianti, l’ha voluta mettere proprio lui sancendo la vittoria di Federer. L’ennesima. Ma questa ha un sapore speciale, e non solo perché arrivata dove non vinceva da sette anni, contro il rivale storico, e per giunta al quinto set. Ha un sapore speciale perché è la prima dal 2013 – annus horribilis per il campione di Basilea –, dal cambio di racchetta e dalla svolta offensivista voluta dal nuovo coach Stefan Edberg.

 

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Roger Federer agli Australian Open 2017

 

Per celebrare come si deve ‘il ritorno del Re’ niente di meglio che chiamare in causa colui che meglio di tutti ha saputo evocare il genio tennistico di Roger Federer e proiettarlo in una dimensione propriamente artistica: David Foster Wallace, romanziere e saggista americano tra i più talentuosi della sua generazione.

 

Secondo Wallace, infatti, la produzione artistica è inestricabilmente legata al concetto, autenticamente metafisico, di Bellezza. Nella sua storia millenaria, l’uomo ha continuamente ricercato, quasi fosse linfa vitale, un immediato rapporto con Essa. Un bisogno primordiale, tanto da potersi dire, parafrasando Shakespeare, che siamo fatti della stessa materia di cui è fatta l’Arte. E quindi, a livello intangibile, di Bellezza.

Non può pertanto stupire che il nostro corpo, i suoi movimenti, possano generare Arte. È l’attività sportiva il medium che consente all’Essere Umano di riconciliarsi con il proprio corpo.

 

Correva l’anno 2006 quando David Foster Wallace, sublime scrittore e appassionato di tennis, scriveva un articolo per il New York Times, dal titolo Roger Federer as Religious Experience. Quegli anni furono testimoni del dominio incontrastato del tennista elvetico (il 2006 fu forse il suo anno migliore) e dell’ascesa del suo eterno rivale, Rafael Nadal. Federer veniva dalla quarta vittoria consecutiva sui prati sacri di Wimbledon, e in generale stava giocando un tennis che a tratti pareva sfidare le leggi della natura. Wallace, inviato all’All England Club, prova a spiegare l’estatica sensazione provata nel trovarsi a contatto con qualcosa di molto simile alla Bellezza artistica, legata a doppio filo all’apparente impossibilità fisica di gesti che sembrerebbero avere a che fare con un’altra dimensione. Ecco quindi che il gesto sportivo diventa veicolo per diffondere la Bellezza Umana, una Bellezza adesso autentica, tangibile, a portata d’occhio. È sempre l’uomo, per mezzo del corpo e della gestualità, a farsi fautore dell’opera artistica.

 

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Roger Federer e Rafael Nadal in uno dei tanti scontri disputati

 

Wallace parla di tennis in quanto è questo lo sport che meglio conosce, avendolo anche praticato a buoni livelli, ma il ragionamento che sviluppa è ovviamente valido per ogni attività sportiva. Ed infatti, lo scrittore americano cita altri illustri esponenti dell’Arte Sportiva quali Michael Jordan (Basket), Muhammad Alì (Boxe), Diego Maradona (Calcio). Ciascuno di loro (altri ne potremmo citare) ha consentito al proprio sport di competenza di elevarsi da semplice concatenazione di gesti fisici a vera e propria espressione di Bellezza. Una Bellezza che Wallace definisce ‘cinetica’, il cui fascino possiede un’influenza universale, capace di provocare nell’uomo che si trovi a diretto contatto con Essa quello stato d’animo conosciuto come Sindrome di Stendhal. E Wallace, servendosi del suo riconosciuto umorismo, ci descrive doviziosamente il suo, sperimentato durante la finale di Londra tra Roger Federer e Rafael Nadal.

 

Wallace è consapevole del fatto che la Bellezza non sia l’obbiettivo dello sport agonistico, e tuttavia individua nella pratica sportiva ad alti livelli la sede privilegiata per l’espressione della Bellezza Umana; quasi impossibile da descrivere o evocare, misteriosa o metafisica, sicuramente reale.

Il Federer di Wallace è una creatura il cui corpo è fatto allo stesso tempo di carne e, in qualche modo, di luce; un mutante, un avatar. Un Genio, colto nell’attimo in cui ‘crea’ la propria opera artistica.

 

E proprio la contrapposizione tra due modi diametralmente opposti di intendere, e praticare, il tennis, quali sono quelli del campione svizzero e del ‘Mancino di Manacor’, permette a Foster Wallace di elevare la competizione agonistica fino al punto di farla rientrare nella dinamica dello scontro epico; “Apollo versus Dionysus”, Potenza contro Bellezza.

Quella finale, come noto, la vinse Federer; e Wallace sarà stato testimone, da vicino, dell’attimo in cui la potenza e l’aggressività saranno rese vulnerabili dalla Bellezza. È quello l’attimo in cui potersi sentire autenticamente ispirato e riconciliato.

E se il Genio non è replicabile, l’ispirazione, invece, è contagiosa.

 

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