“Vivi veloce, muori giovane e lascia dietro di te un cadavere gradevole”.

Chateau Marmont, California, 5 marzo 1982.

Il telefono al Bungalow 3 suonava a vuoto. Strano, pensò dalla stanza 64 Robert De Niro.
Si chiamavano una volta al giorno e l’aveva visto poco dopo la mezzanotte per tirare assieme qualche grammo di coca prima che l’amico lo cacciasse con quel suo fare burbero di quando aveva preso una decisione che non si poteva cambiare.
Voleva rimanere da solo, aveva detto.
Finalmente qualcuno dall’altro capo del filo rispose.
«John… Dov’è John?».
«Abbiamo un problema», chiosò la direttrice dell’hotel.
«Quale?».
«Un grande problema».
«John sta male?».
«Peggio».
E nessuno sentirà più singhiozzare Robert De Niro così.

 

Il comico più originale dai tempi di Lou Costello, la vecchia quercia albanese alta 1,75 cm con peso oscillante tra i 77 kg ai più di 100 che nel 1971 , all’età di 22 anni, saluta l’amata Chicago per provare a diventare un attore, come i suoi Bogart e Brando, che sembravano ficcarsi nei guai senza volerlo esattamente come lui.
John Belushi si è inventato da subito una vita, stravolgendo un’intera genealogia quando, nel 1967, dopo essersi diplomato col titolo del “più divertente” (rifiutata, ‘Killer Belushi’, una borsa di studio per il football) all’Università del Winsconsin, dove sicuro racconta ai suoi colleghi repubblicani alto borghesi di essere figlio di un greco e di un’italiana, un po’ per nascondere le sue origini in pieno maccartismo un po’ per dimenticare quel padre assente, costantemente serrato nella gestione dei suoi ristoranti… e la madre Agnes che cerca di ricoprire anche il ruolo paterno con una severità che lascia ben poco spazio alle morbidezze, “… e allora quando mamma ti picchia, ridi!” consiglia a Jim, il fratello.

 

Ma se l’amore paterno sfugge, John Belushi trova presto quello accogliente di una compagna: durante un gioco di spruzzi e rimbalzi d’acqua a Herricks Lake, con il gomito colpisce inavvertitamente Judith Jacklin, una ragazzina dai capelli ossigenati minuta, nervosa, una di quelle che sembra sprezzante quando invece è solo timida.
Fu l’incontro tra due solitudini giovani che si sceglieranno per tutta la vita, anche nella cattiva sorte.
Al di là delle sfuriate, dei tradimenti, delle dipendenze e degli scontri d’incomprensione, il suo ultimo messaggio in segreteria il 23 febbraio del 1982, alle 10.30, sarà proprio per lei e allora “Dite a Judy che l’amo!”.
Eppure non è il football la passione che riesce a distrarlo dal pensiero dominante di diventare attore, è la Musica.
Fluido batterista, forma nel 1965, col suo amico Blascucci, i Ravens, una band che registra un solo album, Listen to me now, decidendo, in un pomeriggio di primavera, di placcare d’oro alcune delle copie per giocarci a frisbee.
Colleziona, stimolato anche dai club di Chicago, vinili di Blues e li ascolta a volume altissimo da far tremare la terra, e poi c’è anche l’Hard Rock e la ricerca quasi maniacale della prima scena underground punk, “genere puro ed originale”, e Judy che ricorda ancora di quella volta che, fomentato dalla filosofia hippie contro le guerre nixoniane, la trascina per più di 70 miglia in macchina, solo per raggiungere la piantagione di Rantoul Rag, riempire due federe di marijuana a ritmo dei Led Zeppelin e ripartire.
In fondo, in ristrettezze economiche, gli unici modi per i Belushi di viaggiare sono musica, marijuana, LSD, peyote e risate.

 

 

Nel 1971, al trio comico West Compass (che aveva creato con suoi amici d’infanzia Tino Insana e Steve Beshekas) viene offerta l’opportunità di lavorare per The Second City, compagnia teatrale che il nostro orso buono idolatra talmente tanto che la maggior parte degli sketch del trio altro non sono che dei rifacimenti esatti ai loro testi.

 

John Belushi imita alla perfezione gli accenti e suscita una risata anche solamente alzando un sopracciglio, la sua è la consapevolezza lucidissima della nuova rivoluzione comica che starà per sfasciare totalmente i vincoli della satira reazionaria, figlia, con la sua studiatissima mimica facciale e l’accento sboccatissimo, dei tic e dell’umorismo nero di Lenny Bruce.

 

Quando gli altri attori gli passano la palla durante le improvvisazioni, però, John la tiene per tutto il tempo, vorace come quando mangia trattiene il piatto tutto per sé, stringendolo quasi prepotentemente agli angoli, fin quando, al limite, ghiozzo e ingozzato, si lascia andare, stanco, al poggia schiena della sedia.
“Sul palcoscenico è l’unico posto dove so comportarmi”, ripete, e non solo per quel narcisismo tipico dell’attore, ma per una sua esigenza di riuscire a ritrovarsi solo sul palco.

 

Lontano dal palcoscenico invece John Belushi si sente indifeso, tramortito da stimoli continui e perciò confuso e a tratti instabile, capace di passare dal gesto più romantico alla premura più amichevole al vocione più ingrossato per quella fumantina rissosità dei testardi buoni ma un po’ smargiassi di provincia.

 

È sempre quell’anno, durante le prove per la nuova produzione off Brodway di Tony Hendra che John Belushi per la prima volta, invogliato dal redattore della rivista National Lampoon, prova la coca.
Gli viene assicurato che può provarne quanta ne desidera, perché un businessman associato della produzione fornisce la compagnia di 7 grammi per 200 dollari a settimana, in aggiunta il Quaalude, sedativo perfetto contro la tensione che bisogna calarsi dopo, per smorzare gli effetti della coca.
Borderline John, vuole immediatamente essere rifornito sia di cocaina che di Quaalude, poco importa se i primi effetti iniziano già a risultare evidenti (il sovrappeso, gli occhi acquosi, le narici otturate, le difficoltà respiratorie ed il colorito giallognolo), “mi danno la carica per andare avanti”, si ripete davanti allo specchio al mattino, con Judy che lo osserva ai piedi del letto inerme. La droga lo aiuta a restare più concentrato sul palco e attenua la sua pantagruelica ansia.

 

John Belushi

Saturday Night Live

 

L’inizio dell’ascesa di John Belushi si colloca nel 1975 quando il presidente dell’NBC Herbert Schlosser opta per rinnovare ex novo il palinsesto televisivo del sabato sera, preparando uno spettacolo che invogliasse il pubblico giovane a tornare alle 23.30 a casa, solo per guardarlo.

Musica dal vivo, parodie e satire scritte da lorne Micheals sono il fulcro dello show.
Ingaggia 6-8 attori stabili: Chevy Chase, Anne Beatts, Allan Zweible, Gilda Radner e John Belushi (che propone Dan Aykroyd, un ex seminarista canadese, adesso versatile imitatore, con cui ha stretto un’amicizia solidissima che continua a nutrirsi di blues, coca e malinconia).
Schlosser comprende immediatamente quanto Belushi possa essere ingestibile: ora si raccoglie i capelli in una crocchia in alto ed imita un samurai giapponese alla perfezione ora lascia sbuffando lo studio per raggomitolarsi negli stupefacenti, con l’irrequietezza famelica dei talenti di razza, difficili e troppo grandi nell’arte e nella vita.
Il successo del Saturday Night Live trascina via via John nella girandola hollywoodiana di successo, alcool, donne, troppi soldi, sostanze ai party e guai per fronteggiare la noia.

Dopo il disastroso rapporto con Jack Nicholson in Verso il sud, John firma con Dan un contratto per i Blues Brothers, il loro nuovo gruppo musicale, che dovrà esibirsi come supporter-band in 9 serate all’Universal Amphitehatre di Los Angeles.
Dan, di lì a breve, nel 1980, scriverà una sceneggiatura tratta dai loro spettacoli musicali, film che li consacrerà ufficialmente a star che “hanno visto la luce”.

 

Coi ritmi che si fanno sempre più serrati , John prova a raggranellare quanta più coca possibile.
Non ha uno spacciatore ufficiale, però in molti si ricordano di David 69 che gli consegna sui pattini a rotelle un grammo per 125 dollari; o di Mark Hertzan, 31enne con la faccia da ragazzino che viene costretto ad ascoltare sotto l’effetto del Percodan ripetutamente la storia del progetto di John di girare un film sulla sua vita dal titolo Kingpin (pezzo grosso) .
Dopo che John Landis, catturato da quell’uomo-orso, fisicamente imponente, “metà Harpo Marx e Metà Coockie Monster, dolcezza e mania”, lo sceglie per il suo Bluto in Animal House nel 1978, Belushi è sempre più braccato dai fans, spiato, idolatrato, viziato.
Eppure è proprio in questo periodo che si sente più insoddisfatto e depresso, tra l’insuccesso di 1941 – Allarme a Hollywood di Steven Spielberg, la mancanza della vita semplice di Chicago e al tempo stesso il bisogno di sperimentare più che di consolidare il suo successo, di continuare ad essere ribelle come un beatnik, radicato e malconcio di storie come un bluesman, più che nelle esperienze da strada soprattutto nella messa in scena del nuovo umorismo che deve adesso essere aspro e amaro per rispecchiare quella realtà americana che sta rapidamente cambiando pelle. Una realtà in cui i protagonisti sarebbero stati più simili a lui; gli imperfetti e gli antieroi, quelli un po’ indolenti ed irrisolti, curiosi e affamati di vita pura.
L’ironia è la sola arma atomica per esorcizzare le storture e gli affanni, per esplorare le fisime e i tabù fino a sfasciarli, per scuotere le coscienze dormienti dentro l’edonismo anni ’80, per sedare i nervosismi e giocare col mondo.

 

John Belushi

John Belushi e l’amata Judy

 

Così ad un certo punto ‘L’ape da una tonnellata’ decide di mettersi a dieta per interpretare Souchack, personaggio che sente molto vicino, nella sua prima commedia romantica Chiamami aquila. Smokey, il suo solerte generale assistente, gli prepara la colazione alle 6 (cereali, caffè con saccarina, melone, latte scremato), lo spinge a disintossicarsi, a lasciare che i demoni brindino da soli, a scegliere il rigore all’autodistruzione.
Ma la droga è una sirena bionda che lo richiama ad amoreggiare negli abissi.
Dalla lavorazione di Vicini di casa (per i dissidi col regista, il voler ricomporre da solo la colonna sonora per non presentare al suo pubblico una commedia così opaca e poco brillante) fino ad arrivare in escalation alla sceneggiatura di Noble Rote.

 

Sì perché John Belushi crede moltissimo in questa sceneggiatura, dentro ci sono i suoi istinti dionisiaci, il Blues e la mistica dei Blues Brothers, lo sguardo aguzzo sui tempi, le sostanze e una nostalgica, lambiccante dolcezza.
Ci lavora incessantemente spesso non dormendo per giorni interi fino a quando non regge la stanchezza e le dipendenze che lo aiutano a tenersi sveglio e vomita, di nuovo grasso e gonfio.

 

E siamo di nuovo al 5 marzo 1982, gli Studios gli hanno appena rifiutato la sceneggiatura di Noble Rote, John chiede a Catherine Smith – una cantante e spacciatrice di quart’ordine –, di fargli una siringa. Ha sempre evitato di bucarsi ma non riesce più a sottrarsi all’effetto dello speedball, a quel momento esatto in cui l’eccitazione della cocaina viene smorzata dall’eroina, che invece lo spinge dentro una placenta quieta e sfumata ed è solo lì che si sente pienamente coccolato e compreso, neanche Judy ci sarebbe riuscita.
Poi si getta sul letto, stremato, il cuore che batte forte come fosse di due misure più grandi, il cuore dei passionali, dei voraci, dei coraggiosi o degli impavidi sfidanti del Destino e dei perbenismi in terra.
“Non te ne andare…” implora alla ragazza,
“Non te ne andare…”, ripete ancora una volta, con un’eco sempre più lontana.
E non è più tornato.
E qui, quasi me lo sento replicare esattamente con la stessa frase incisa sulla lapide, con un C’mon bambina!, “I may be gone, but Rock and Roll lives on!”.
Seguirà un’ esplosione di risata.