Brian Eno ci trascina per l'ennesima volta nel suo magico mondo.

Non ci sono molti artisti, che con più di 40 anni di carriera alle spalle, vedono ancora le proprie produzioni come un modo per sfidare i propri paradigmi, con qualcosa di nuovo e di diverso. Per Brian Eno questa è una sfida fondamentale per la sua identità di musicista.

 

The Ship, il secondo album pubblicato per l’etichetta di Sheffield, Warp, riesce a distinguersi e  a delinearsi un proprio profilo rispetto ai lavori precedenti di Eno. L’artista ha descritto queste notevoli differenze di lavorazione come un desiderio di creare dei brani che non si basassero su normali strutture ritmiche e progressioni di accordi ma come figure singole che si muovessero indistintamente nello spazio e nel tempo, come gli eventi in un paesaggio.

 

The Ship è suddiviso in quattro tracce che scorrono in uno stato di musica oceanica.

Come racconta Eno l’ispirazione per il nuovo lavoro si è sviluppata sovrapponendo il concetto del Titanic con quello della prima guerra mondiale, mettendo al centro dello spazio pittorico l’oceano blu come il verde dei campi di battaglia. Ma soprattutto cercando di esperire il dualismo che vede da una parte la fede nella tecnologia, sintetizzata iconicamente nell’acciaio, e dall’altra il naufragio delle speranze dell’umanità.

 

L’opera si apre con la title track, con la durata di 21 minuti, che dà inizio al primo atto.

 

 

 

Il brano è articolato in uno scenario di ambient amniotica e solenne, dove fluttuano le voci: quasi gregoriana quella dell’autore, aliena e distaccata l’altra, femminile.

Da qui, l’album, lascia spazio alla seconda composizione più lunga, Fickle Sun (i).

 

Anche se il ritmo e la velocità sono similari al primo brano, le sensazioni sono molto diverse. L’orchestrazione è ombrosa, a tratti marziale, dove l’intonazione del protagonista è manipolata, divenendo astratta.

 

Si chiude il primo atto.

 

Ad aprire il secondo atto troviamo The Hour Is Thin. La vera essenza dell’opera. Due minuti di recitato da parte dell’attore Peter Serafinowicz dal diario di un testimone del naufragio,  interpolati, per mezzo dell’algoritmo generativo Markov, a brani ballate da trincea della Grande Guerra, in forma di una poesia allusiva in cui ogni emozione è sospesa.

 

Il fattore umano affiora all’epilogo con l’inattesa e sorprendente cover di quell’autentico ritratto del mondo umano nella sua decadenza firmato da Lou Reed nell’omonimo dei Velvet Underground, I’m Set Free. Eno la trasforma in una ballata languida, quasi spensierata, da parte di chi sulla nave ormai ci è salito e ha voluto salutare, con mutata consapevolezza della sua finitudine, il mondo prima di salpare. I’m set free to find a new illusion“.