Seconda parte di Scary Tales, una raccolta di racconti su esseri umani aberranti, che compiono gesti estremi dettati dalle paure insite nella mente umana.

“Vienga, dottor Spinoza l’attende…”.

Con uno strano accento, una donna grassa e praticamente barbuta si frappose tra le mie parti ancora inibite. Le mie facoltà avevano recuperato abbastanza energia quando la figura sempliciotta mi spinse. Senza parlare, mi spinse, indicando un ammasso di gradini lucenti che si ergevano a poca distanza dall’ingresso della casa.
Provai a schioccare l’attenzione per orientarmi, ma fu inutile. La luce rifletteva sui ferma-moquette ottonati e impediva di distrarmi dalla potente figura che fiatava dietro di me.
Quest’ultima fomentava scricchiolii legnosi per tutto il sottoscala e canzonava il tintinnio del corrimano, abusandone.
C’erano due sole rampe di scale, eppure si districava tra gli scalini la sensazione di perdersi.
Mi allontanavo sempre di più dal punto di partenza, e improvvisamente mi sembrava di ritrovarlo davanti: avanzavo affaticato.
La barbuta spingeva. Sembrava abituata, malgrado le apparenze, a fare quel percorso.
Ad un tratto si fermò e mi fece cenno di continuare, da solo però.
Capii che lei non poteva andare oltre, aveva un chiaro compito: non poteva eccedere per dimostrare né sbagliare, per poi pagare le conseguenze di entrambi i casi.

 

Le rampe di scale sfociavano in un atrio gentile, mappato da raffigurazioni ecclesiastiche, come a voler rasserenare il pellegrino incerto. Ma, malgrado gli affreschi, dentro di me bussava violentemente la sensazione di non essere all’altezza del mio compito. Così imbavagliai la coscienza, che gridava di rimanere nella calma ortodossa, e andai avanti.
Nel camminare mi voltai verso le finestre che davano sul niente buio notte. Erano imprigionate in archi a tutto sesto e non c’era modo di aprirle, potevi solo guardare fuori e specchiarti in un tuffo introspettivo. La pesantezza delle vetrate sublimava il vento, ma lo potevi sentire accarezzare la superficie trasparente, artigliarsi e scivolare.
La casa era a più livelli e come un disegno di Maurits Cornelis Escher strutturava alcuni dettagli che confondevano e inquietavano l’orientamento. Il pellegrino era una nota nei girigogoli canonici di Bach.
Il dottor Spinoza era uomo di ottima famiglia, colto ed educato. La sua dinastia sorvegliava i corridoi dai quadri incastonati in massicce cornici levigate e il profumo, anzi il puzzo di vecchio e lezzo impregnava le pareti e la carta da parati, rimaneggiata e rattoppata perfettamente.
Seppur, tramite allegorie e paragoni, avessi potuto avvicinarmi molto ai fatti, nulla avrebbe potuto spiegare meglio l’accaduto dei miei occhi, primi soldati a essere colpiti senza poter scappare: la sagoma che mi trovai di fronte era quella di un individuo basso ma ben proporzionato, vestito con abiti su misura di ottimo materiale. Il volto nobile aveva un’espressione vanitosa ma non arrogante ed era ornato da una corta barba grigia, mentre un pincenez un po’ antiquato proteggeva gli occhi scuri e stava a cavallo di un naso aquilino che conferiva un tocco moresco a una fisionomia che per il resto rimandava a una genetica celto-iberica. I capelli folti e tagliati con cura da un barbiere esperto erano divisi sulla fronte ampia, il quadro complessivo trasmetteva raffinatezza, intelligenza e spiccata educazione.
Potrei dilungarmi con i discorsi… potrei presentare i dialoghi che ebbi con lui, ma la sola sua presenza, vi giuro, mi suscitò un certo ribrezzo. Il colore livido della sua carnagione e la freddezza del tocco avrebbero potuto costituire la motivazione della mia sensazione, ma erano comprensibili in un invalido come lui.
Ci fu una folata di aria fredda, e mentre da fuori gli alberi sembravano artigliare l’aria, gli odori della stanza si conficcarono su per le mie narici.
Provai una ripugnanza che nulla del suo aspetto poteva giustificare. Mi sentii rabbrividire e respingere, poi avverso, sfiduciato, infine impaurito.
Saltò i convenevoli. Il dottore sembrò fiutare la mia agitazione e si impegnò a mettermi a mio agio, come un maestro con il discepolo. Mi rassicurò con voce flebile ma abbastanza roca da presagire un’assidua dipendenza da oppio.
Iniziò a blaterare qualcosa sulla morte e poi mi spensi, come se mi avesse drogato. Sentivo riecheggiare le sue parole come quelle di un capo tribù in lontananza e… ballavo con i lupi, con le streghe, con il mare che mi accompagnava verso riva per poi schiantarmi contro gli scogli…
Per quanto fosse lontana la sua voce, riconoscevo dei peggioramenti: avevo la sensazione che tra una frase e l’altra non prendesse neppure fiato. Cercai di spalancare gli occhi ma ero in trance, in un contatto diretto con la sua essenza.
Nel rompicapo di parole sentivo il mio corpo riconoscere la qualità di argomenti che stavo assimilando. C’era l’alchimia, l’ermetica , la chimica analitica e l’esoterismo più estremo…
“… Ho devoluto una fortuna, rinunciato a tutti gli amici. Uccisi… uccisi… tutti.
Gli esperimenti che condurranno alla sua definitiva sconfitta… traditore, sono un traditore della morte…” Ricostruii a posteriori alcuni stracci dei discorsi che avevo assecondato.
Dove ero finito? Perché proprio io? Se voleva tramandare le sue conoscenze non poteva chiedere a qualche autorità?
Solo dopo, molto dopo quel momento, capii che gli servivo io, ma non perché avevo una certa peculiarità. Gli serviva un corpo, una vita ingenua che non avesse veramente vissuto fino a quel momento. Gli serviva un corpo dove poter sopravvivere.
Si, il dottor Spinoza era un parassita. E forse non era nemmeno quello che avevo conosciuto io il vero dottore. Forse anche quello era un tramite, un bozzolo, un coppo ricoperto di carne dove fomentare le sue conoscenze oltre le volontà di Galeno stesso.
Aveva vagato per il mondo in cerca di conoscenze per sconfiggere la morte. Aveva commesso crimini senza fine, ma i rimorsi carnali e terreni lo scalfivano e adesso era giunto al termine. Doveva trovare un modo per continuare a vivere.

 

Mi parlò di volontà e di coscienza. Mi disse che erano più forti della vita organica e che…”se un corpo in buone condizioni viene preservato accuratamente, grazie al potenziamento scientifico di quelle qualità può conservare una sorta di animazione nervosa nonostante i più gravi difetti agli organi specifici”
Intanto peggiorava a vista d’occhio. Vedevo aumentare il suo colorito livido e la voce diventare più roca e indistinta, i movimenti meno coordinati e la mente diminuiva di forza.
Rividi molto di lui nella casa in cui abitava, aveva l’esterno totalmente crettato, ma il suo interno si conservava come se fosse immortale.
Il neogotico esterno trasmetteva l’aria del romanticismo ottocentesco che era stato risucchiato dall’interno. Un interno completamente rinnovato, ma che puzzava come l’esterno e resisteva solo grazie al filo conduttore del tempo, lo stesso tempo che il dottor Spinoza aveva ingannato.
Ecco perché la donna non si avvicinava. Sicuramente l’inquilino aveva perso la finzione di mangiare e resisteva solo grazie al potere della mente, che gli impediva di andare in pezzi.

 

Quando mi ripresi era troppo tardi. Cercai subito la figura del dottore e un presentimento anticipò la paura, che mi stritolò le viscere.
La figura era seduta di fronte a me, come morta. Provai ad avvicinarmi per sincerarmi di non so cosa. Un’orribile tanfo attenuò l’aria e fomentò l’ondata di moscerini che avevano avvolto la figura. Feci per toccarlo, e la testa cadde fermandosi sul petto, sostenuta a stento dal collo livido.
Scappai, più che potevo.
Fuori, nel buio mostruoso, scoppiettarono le costellazioni innaturali e le luci del paese guizzarono come uno sciame di lucciole nutrite da cadaveri. Mentre scappavo, vedevo questi cadaveri rincorrermi.
Fuori dalla casa, adesso non avevo bisogno di nessuno.
Sentii La signora barbuta gridare: “ E’ morto! L’avete ucciso! E’ morto!”.
Non risposi.
Il dottor Spinoza non era morto. Ero io il dottor Spinoza, adesso.
E lo sentivo salire su nella mia testa, rimbombare fino a smettere di essere me… fino a smettere di correre e tornare a passo verso la casa…