I Vitelloni consacra Fellini vincendo il Leone d’argento al Festival di Venezia. 

Con Lo sceicco bianco (1952), Fellini inizia una collaborazione con gli sceneggiatori Tullio Pinelli e Ennio Flaiano che durerà fino a Giulietta degli spiriti (1965), ma il suo riconoscimento come regista di rilievo avviene solo quando, nel 1953, vince il Leone d’argento al festival del cinema di Venezia con I vitelloni.

 

La storia è ambientata in una cittadina di provincia che ricorda vagamente la Rimini tanto cara al regista e mette in scena le vicende di cinque perdigiorno figli della piccola borghesia.

Gli scenari evocano luoghi cruciali della giovinezza del cineasta e la vicenda si conclude con la fuga di uno di loro proprio in quella Roma dove approdò Fellini a diciannove anni.

Non a caso la storia è narrata dalla voce fuori campo di un anonimo “vitellone” che guida lo spettatore in un mondo popolato da spettri che albergano nella memoria del regista riconducendo il film al genere dell’autobiografia.

Questo spazio del ricordo non è stato ricostruito a Rimini ma a Ostia, quasi a sottolineare che le immagini a noi proposte non sono la realtà ma la sua reinvenzione.

 

Il regionalismo “vitelloni”, di origine marchigiana, rende l’idea di personaggi che non sanno che fare della propria vita e rimangono in uno stato di attesa continua.

I cinque protagonisti sono in moto perpetuo per tutta la durata del film, camminano per le strade della loro cittadina senza mai fermarsi fino alle ore più tarde della notte, ma, paradossalmente, rimangono intrappolati in un’immobilità statuaria proprio come degli equilibristi che camminano su una fune che non li porta da nessuna parte, con il rischio continuo di poter cascare da un momento all’altro nel baratro della vita, prigionieri nel loro microcosmo e incapaci di uscire da quel piccolo mondo che tanto canzonano.

 

 

Ognuno di loro incarna diversi aspetti della mediocrità provinciale.

Fausto (Franco Fabrizi) che possiamo considerare il personaggio principale, collante della storia e delle situazioni che la attraversano, è un seduttore da quattro soldi, un ipocrita che ricorre continuamente alla menzogna per occultare le sue avventure. Si rende ridicolo, quando la moglie lo lascia dopo esser venuta a conoscenza della sua tresca con una ballerina, cadendo in un panico patetico a lui solitamente estraneo. Alberto (Alberto Sordi), nullafacente che vive in famiglia, sorveglia in maniera ossessiva la sorella Olga. Leopoldo (Leopoldo Trieste) insegue i suoi sogni artistici facendosi mantenere dalle zie. Riccardo (Riccardo Fellini), pur essendo parte del gruppo, rimane più in ombra rispetto agli altri, forse proprio perché fratello del regista.

Moraldo (Franco Interlenghi) è la coscienza del gruppo, una sorta di spettatore esterno che osserva e critica la condotta degli amici. Tramite un insolito espediente tecnico, nel film Fellini riesce a dare un tono da falsa biografia calandosi nel gruppo con un curioso sdoppiamento tra Moraldo e la voce fuori campo che appare come un sesto “vitellone”.

 

Film permeato da una grande malinconia che si può riassumere nello sguardo di Sordi – dopo il veglione di Carnevale – che vaga per le strade inveendo contro i suoi amici, per restare da solo abbracciato a quella maschera di cartapesta, l’unica che forse può capirlo e con cui per una volta può smettere di mentire a sé stesso e al mondo intero.

 

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