Personaggi moralmente ambigui, segnati dal proprio passato, perdenti e lupi solitari, pronti a seguire l’istinto animale.

Un cristo intagliato nel legno, innevato nel bianco Wyoming. Poi, lentamente, arriva una diligenza nera, a rompere tutto quel bianco, quella perfezione visiva. È il male: direzione Red Rock.
Il tutto è accompagnato da sette minuti di musica spaventosi per intensità e colore. Sembra una lunga marcia funebre che ci proietta in un inferno di ghiaccio. Musica, neve e silenzio. L’incipit di The Hateful Eight, si contrappone a quello, altrettanto straordinario, del film Le iene. Uno muto e l’altro completamente parlato. Probabilmente i due migliori di tutto il repertorio tarantiniano.
Dentro la diligenza troviamo John Ruth (Kurt Russell), cacciatore di taglie soprannominato Il Boia, perché gode nel vedere le sue prede giustiziate sulla forca, e, ammanettata al suo braccio sinistro, la canaglia Daisy Domergue. Fuori un forte vento preannuncia tempesta. La diligenza viene fermata dal Maggiore Marquis Warren (uno straordinario Samuel L. Jackson), cacciatore di taglie nero in cerca di un passaggio. Il viaggio continua, fino a quando non viene interrotto di nuovo a causa della malalingua di Daisy. Durante la sosta appare Chris Mannix, sudista rinnegato, novello sceriffo di Red Rock. Scetticismo e perplessità aleggiano nell’aria, ma, nonostante tutto, riesce a salire a bordo.
I quattro trovano rifugio nell’emporio di Minnie e ad attenderli ci sono quattro sconosciuti ed un pessimo caffè. Uno di loro non è chi dice di essere, o forse tutti…

 

The Hateful Eight (2)

Quentin Tarantino sul set di The Hateful Eight

 

Otto bastardi, reietti senza possibilità di salvezza, e un emporio. Il pretesto è lo stesso di Ombre rosse: chiudere dei personaggi dentro quattro mura per svelarne la psicologia e i caratteri.
John Ford era il maestro della caratterizzazione dei personaggi, ma Tarantino non è da meno. Il western di Ford era basato su valori essenzialmente ‘buoni’, e la violenza era velata, come all’epoca si usava. Quentin, invece, si fa portavoce della ultraviolenza, non la nasconde, anzi, va al di là della violenza stessa. Violenza di puntare una pistola dritta in faccia, come abuso di potere che genera tensione per tutta la durata del film. Questo lo avvicina a Peckinpah – altro maestro del western – come anche la tendenza dei protagonisti all’autodistruzione. Personaggi moralmente ambigui, segnati dal proprio passato, perdenti e lupi solitari, pronti a seguire l’istinto animale, come il protagonista di Cane di paglia, per conquistarsi la sopravvivenza.
Tarantino si differenzia da Peckinpah ostentando tempi lunghissimi, dilatati fino allo sfinimento come nei film di Sergio Leone, conditi da dialoghi lucidi e ad alto tasso di genialità, per questo sintetizza la lezione dei tre maestri del western confezionandone uno totale, un oltre-western. Il suo.
Django è stato un esperimento malriuscito, inevitabile per arrivare alla potenza di The Hateful Eight, che ritrae un pezzo di storia americana, spesso dimenticata, che oscilla tra violenza e morale.
Ennio Morricone suona la carica con la migliore colonna sonora dell’anno, già reduce di un Golden Globe, e sicuramente verrà premiato anche con l’Oscar alla migliore colonna sonora.
I primi 100 minuti sono vera e propria antologia tarantiniana – forse ciò che di più bello ci ha regalato –, mentre nell’ultima parte scoppiano teste, ma che ci vuoi fare: è Tarantino prendere o lasciare.