Il capolavoro di Tarantino è un mix esplosivo di cultura avantpop.

Premetto che non sono un grande fan di Quentin Tarantino, o meglio non lo ritengo quel genio che la maggior parte del pubblico medio pensa che sia, ma quando mi trovo davanti a Le Iene non posso non riconoscerne il magnetismo. I primi sette minuti sono l’apice stilistico dell’opera tarantiniana, un mix esplosivo di cultura avantpop, di botta e risposta senza tregua fra brutti ceffi che si insultano e sparano a zero su tutto.

 

Mr. Brown: “Ve lo dico io di cosa parla Like a Virgin. Parla di una ragazza che rimorchia uno con una fava così! Tutta la canzone è una metafora sulla fava grossa”.

 

Un incipit fuori dagli schemi, che dà il via a quei fantastici sette minuti in cui la macchina da presa danza. Danza svelando lentamente i protagonisti della storia in un gioco di ombre, passando dalla nuca di uno al primo piano di un altro. È una lezione di cinema data da uno che il cinema lo ha solo osservato. Quentin Tarantino è l’esempio eclatante di come si possa fare cinema senza averlo studiato, ma semplicemente divorando migliaia di film senza alcun criterio selettivo. Tarantino si ciba di pane, film e fumetti nel videonoleggio dove lavora. Inizia a buttare giù sceneggiature su sceneggiature ed ecco che nel 1992 compare Le iene. La storia è incentrata su sette Mr. dalle tinte pulp, sette cani da rapina diretti dal malavitoso losangelino Joe Cabot (Lawrence Tierney) e da suo figlio Eddie “il Bello” (Chris Penn). Dopo quei fantastici sette minuti – di cui non mi stancherò mai di parlare – ci troviamo catapultati nell’azione, con un Mr. Orange (un giovane, ma già fenomenale Tim Roth) imbevuto di sangue dalla testa ai piedi, si trova sul sedile posteriore di una macchina agonizzante, mentre alla guida c’è Mr. White (un grandissimo Harvey Keitel) che schiaccia il piede sull’acceleratore per arrivare nel luogo x. Da qui in poi alla storia presente si accavalleranno flashback di straordinaria incisività, sia della rapina da poco andata male, che di brevi momenti del passato dei protagonisti che hanno la funzione di presentarli uno ad uno.

 

 

Le Iene - Tarantino

Tim Roth in una scena de Le Iene

 

Mr. Pink (Steve Buscemi): “Mr. Blue è morto?”.

Joe: “Più morto di Dillinger”.

 

Questa è una delle tantissime citazioni tarantiniane, omaggio sia al bandito John Dillinger che al capolavoro di Marco Ferreri. Tarantino però non cita solamente titoli, nomi e parole, ma anche situazioni, le prende e le trasforma, ci gioca; sì, ci gioca perché prima che lo spettatore vuole divertire se stesso. Da tutti i suoi film si evince chiaramente questo baloccarsi con il cinema; che va bene, il cinema è anche intrattenimento, ma i suoi più grandi passi falsi sono frutto proprio di questo eccessivo trastullarsi col mezzo cinematografico, che spesso diventa masturbazione videoludica. Ma Tarantino è questo, prendere o lasciare. Però Le iene, anche se è l’esordio cinematografico – come il secondo film Pulp Fiction – ha qualcosa di magico, è come se fosse ancora puro, avulso da tutte le brutture future, che, forse, sono solo il prodotto di un regista a cui la fama e l’essere diventato il simbolo di una generazione può aver fatto perdere la freschezza di un tempo.

 

L’ultraviolenza, tematica che si ripeterà in tutti i film di Tarantino, ne Le Iene è calibrata bene, è soprattutto violenza verbale e psicologica. Parole che escono dalle bocche sparate come pallottole, un montaggio perfetto e attori formidabili creano un pastiche di generi che accontenta un po’ tutti, sia lo spettatore medio che il cinefilo più incallito. Le numerose citazioni servono a scollegare lo spettatore dalla realtà simulata, da ciò che sta vedendo – oltre che a divertire il regista stesso – per trasportarlo in un mondo a metà tra la fiction e la non-fiction, un mondo in cui anche una scena violenta come quella del taglio dell’orecchio, accompagnata dalla canzone Stuck in the middle with you può apparire simpatica e farci divertire, perché guardare un film di Tarantino è un po’ come andare al luna park, ci sediamo, paghiamo il biglietto e per due ore possiamo dire di aver assistito ad uno spettacolo ipnotico che ci ha ammaliati dal primo all’ultimo minuto.

 

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