Il valore della vita per i media.

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“Nel maggio del 1999, una tempesta colpì l’India uccidendo, secondo la stampa, 278 persone e ferendone o danneggiandone altre 40000. Quello stesso giorno, uno studente quindicenne iscritto al secondo anno di liceo sparò a sei compagni di classe nella Heritage High School nei sobborghi di Atlanta. I due eventi entrarono in competizione per lo spazio nelle news. Dal momento che la sparatoria avveniva un mese dopo la tragica aggressione della Columbine High School, il secondo evento ricevette la totale attenzione dei media, e la catastrofe naturale avvenuta in India non fu raccontata in America. Circa un anno prima, una tempesta simile in dimensione e conseguenze (250 morti, 40000 persone interessate) colpì l’India e, non essendoci altre ‘breaking news’, fu coperta in modo estensivo da TV e giornali”.

 

Inizia con queste parole un paper di Thomas Eisensee e David Stromberg pubblicato sul Quarterly Journal of Economics che dimostra che i disastri naturali a cui viene data adeguata copertura nei media ricevono interventi di natura economica per l’alleviamento e sostegno dell’emergenza. Il legame tra la copertura di una notizia e il conseguente intervento politico assume particolare importanza quando un disastro accade in concomitanza con altri eventi mediatici che hanno un forte richiamo sul pubblico: la presenza di altre notizie degne di nota può infatti far passare in secondo piano eventi avvenuti lontano dall’Occidente e privare il luogo della tragedia del sostegno economico che avrebbe altrimenti ricevuto.

 

La presenza di un alto o basso volume di news assume dunque un ruolo cruciale per quanto riguarda la scelta (di editori e direttori di telegiornali) di dare spazio a una notizia. Lo studio afferma che “affinché la notizia relativa ad un disastro naturale venga pubblicata in un giorno in cui il volume delle news è alto, le vittime devono essere sei volte tante rispetto a quelle che si hanno in una giornata di bassa pressione di news”. Similmente, quando una catastrofe naturale avviene durante un evento dal forte richiamo mediatico come le Olimpiadi, le morti devono essere almeno il triplo rispetto ad un giorno normale affinché ottengano copertura e, quindi, vi sia una possibilità che il disastro riceva supporto e aiuto.

 

Lo studio giunge alla conclusione che il tipo di disastro naturale e il continente dove questo avviene determinino la probabilità che la notizia riceva copertura. Per avere la stessa probabilità di pubblicazione di una morte causata da un’eruzione vulcanica, servono 2 vittime da terremoto, 1696 vittime causate da una epidemia e 38920 causate da una carestia. E, ancora, un morto in Europa richiede 3 morti in Sud America e America centrale, 43 in Asia e 45 in Africa. Infine, il paper dimostra che quando le vittime aumentano di un fattore pari a dieci, la probabilità di ricevere copertura (e quindi possibile sostegno economico) aumenta, mentre quando le vittime sono dieci volte tante non vi è un incremento proporzionale nella probabilità di copertura.

 

Jack Lule, docente di giornalismo che ha studiato il comportamento del New York Times dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, intervistato per un articolo uscito sul The Atlantic risponde così ad una domanda su come si determina se una vittima è ‘degna’ di un obituario o se sarà semplicemente parte di un conteggio: “La prima cosa da chiedersi è se vi è una vittima della nazione dove la notizia verrà pubblicata. Perché se così fosse, la vittima nazionale riceverà molta attenzione e questo permetterà di semplificare la crisi internazionale o il conflitto per i lettori… Alla fine dei conti, per i media contano i concetti di vittima ‘meritevole’ e ‘non-meritevole’”.

 

Quanto delineato dal Professor Lule trova riscontro negli esempi fatti da Jacoba Urist, redattrice dell’articolo del The Atlantic precedentemente citato. “Prima degli omicidi di James Foley e Steven Sotloff, l’ISIS aveva già massacrato migliaia di persone. Ma è stata la pubblica e brutale esecuzione di ‘giornalisti locali’, e la copertura datagli negli USA da parte di molti giornalisti, che ha nettamente influenzato l’opinione pubblica americana e l’amministrazione Obama in favore di un intervento militare”.

 

Il concetto di ‘focus su vittime nazionali’ da parte dei network europei e americani è stato presente anche nel caso degli attacchi di Parigi (alle cui vittime sono stati dedicati svariati obituari e dettagliate presentazioni) mentre è stato virtualmente assente nel caso dell’attacco di Beirut. Portando alcuni osservatori e la rete – prima vittima di comportamenti virali non troppo ponderati – ad accusare i media (e Facebook) di aver fatto distinzione tra ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B’.

 

È sempre il The Atlantic a ricordare che, tuttavia, la decisione di dare spazio a guerre e attacchi terroristici segue un altro processo rispetto ai disastri naturali. Un ottimo esempio di ciò è fornito dal diverso trattamento subito dai due voli della Malaysia Airlines scomparsi nel 2014. Il primo sparì dai radar a marzo mentre sorvolava il Mar Cinese Meridionale (239 vittime). Il secondo fu abbattuto dai ribelli filorussi ucraini in luglio (298 vittime). Tuttavia solo il secondo ricevette abbondante spazio nell’informazione e questo perchè aveva un preciso colpevole (i ribelli filorussi) che, agendo da predatore, mieteva delle vittime innocenti.

 

Sebbene l’individuazione di un tasso di cambio tra morti occidentali e non-occidentali richiederebbe una serie di dati storici di cui ad oggi non siamo in possesso, risulta chiaro che per i media di ogni paese ci sono morti di ‘serie A‘ e morti di ‘serie B‘, ma questa non è una scelta discriminatoria decisa a tavolino ma piuttosto la conseguenza dell’interazione di una serie di fattori: 

 

1) Ciò che viene coperto dai media (a prescindere che sia una catastrofe naturale o un attentato o una guerra) ha implicazioni dal punto di vista della risposta di policy attuata dai governi.

 

2) Per quanto riguarda i disastri naturali vi è una chiara relazione di equivalenza (valida in questo caso per gli USA, ma approssimativamente la stessa per l’Europa) tra tipologia di disastro e copertura, e nazionalità di ‘vittime non-nazionali’ e copertura. 

 

3) Il concetto di ‘vittima nazionale‘ è una cruciale determinante delle scelte di editori e direttori: questo permette di attrarre una grossa attenzione (rafforzata dalle reazioni ematiche dei social media) e, specie nel caso di attentati o guerre, di semplificare scenari complessi focalizzandosi su una storia che copre gli elementi umani piuttosto che quelli particolari del contesto – arrivando così a una utenza più ampia o, economicamente parlando, al median voter.

 

4) La presenza di vittime (nazionali e non-nazionali) riscuote un forte interesse fino ad un numero soglia (non sempre definibile in modo chiaro): prima di questa cifra è possibile presentare le storie personali dei deceduti, raccontandone la vita e dedicandogli un ‘obituario’; una volta superata questa cifra è invece la tendenza a riassumere l’evento con un numero (‘1000 morti nel conflitto x’) che prevale. E l’effetto sull’opinione del pubblico è minore. 

 

5) Nel caso di attentati (o guerre) l’esigenza del pubblico è quella di identificare un colpevole, anche per questo l’attenzione mediatica è maggiore rispetto a un disastro naturale, ovviamente esogeno.